MONASTERO DI S.MARIA DI ROCCADIA
 
Notizie tratte dal sito ® www.mondimedievali.net  - Testi e foto di Giuseppe Tropea
 
Storia del monastero dalle origini al XV sec.
 
Sulle origini del monastero di S. Maria di Roccadia rimane la più assoluta incertezza riguardo alla data di fondazione. L’ipotesi che l’abbazia possa avere avuto i natali negli anni della conquista normanna dell’isola, intorno al 1070 d.C., e che il primo abate, Giovanni da Lentini, sia stato scelto proprio dal Conte Ruggero, è dal Pirri considerata pura invenzione, se non altro per incongruenza cronologica, giacché l’ordine cistercense risulta canonizzato non prima del 1098 d.C. Non è impossibile invece immaginare che l’istituto sacro sia stato effettivamente fondato durante il governo del conte Ruggero, probabilmente non prima della definitiva conquista dell’isola, ed amministrato da monaci di regola benedettina e solo successivamente, in data non precisata, affidato ad una congregazione cistercense. Purtroppo non rimane alcun documento a conferma di tale pensiero.
 
Il Manriquez ricorda il complesso come ascrivibile ad una filiazione dell’abazia di Sambucina, in Calabria. Pirri ritiene credibile, per quanto egli stesso affermi che si tratti solo di congetture, la notizia legando la fondazione con la venuta in Sicilia  dell’abate di Sambucina Luca, inviato nell’isola come legato Pontificio da Innocenzo III. Sarebbe dunque possibile che tale personalità, la quale ben presto eccelse in fama e importanza nel regno, promuovesse o fosse fautore della fondazione di Roccadia.
 
La lista degli abati di S. Maria di Roccadia ha il suo inizio con il citato Giovanni di Lentini, la cui collocazione cronologica sfugge ancora. Mugnos ricorda il nome del secondo abate, tale  “Nivaldus Sclafano”, durante la reggenza del quale si ritiene che Federico II, già re di Sicilia, ma non ancora imperatore, abbia fatto atto di donazione al monastero di beni mobili e immobili, come debitamente ricordato in quell’unico documento superstite, che narra dei possedimenti dell’abbazia, databile circa al 1220 d.C. In effetti la formula riportata in quest’unico atto di epoca federiciana, tanto importante per la storia del monastero di Roccadia, non può lasciare spazio a molti dubbi, visto che l’autorità imperiale in tal modo recita: “ … Concedentes, donantes et confirmantes eidem Monasterio in perpetuum possessiones et omnia bona quae in praesenti tenet et possidet…”. Destinatario della conferma di tali proprietà e privilegi fu l’allora abate Antonius, come ricordato nell’atto stesso.
 
Riguardo, dunque, all’aspetto cronologico, in base ai pochi dati ricavabili dalle concessioni confermate da Federico II, si può dunque ben ipotizzare che il monastero fosse non solo preesistente al 1220, ma anche che probabilmente esistesse già durante la minore età e durante i primi anni di regno dello stesso Federico. Allo statto attuale delle ricerche si ritiene, di conseguenza, inutile andare oltre l’ipotesi espressa, sebbene non sia affatto improbabile che S. Maria di Roccadia abbia visto i natali durante il regno normanno.
 
Al 1262 risale un atto proveniente dalla cancelleria di Manfredi, forse uno dei pochi riguardanti la Sicilia. Nel documento si testimonia la necessità di riparare alla rovina, nella quale era caduto il complesso sacro di Roccadia. In questo caso, la formula e le modalità di riparazione espresse nell’atto meritano un accenno. Manfredi letteralmente ordinò a Umfredo Alemanno “Justitiario Vallisneti de nostro Regno Sicilia ultra Farum” nonché “Castellani Castri veteris nostra fidelis Civitatis Syracusarum, statim capta de eo possessione…” di “…tradere debes dictum Castrum, cum juritus et pertinentiis suis omnibus in manibus Joannis de Pedelepore…”. Da questa transizione di beni ne trasse vantaggio il monastero di Roccadia, giacché “…cuius introitus et arredamenta debita per dictum de Pedelepore infra annum convertere debes pro readificatione venerabilis Monasterii S. Maria de Roccadia de Ordine Cisterciensium…”. Si trattò forse di un’abile manovra finanziaria operata da Manfredi per riedificare il monastero senza che i costi gravassero direttamente sulle casse della corona, impegnata a respingere le mire rapaci di Carlo d’Angiò. In realtà non si conoscono del tutto le cause della distruzione del monastero, possibilmente ascrivibili a calamità naturale.
 
Dei decenni della dominazione angioina poco o nulla proviene dalla superstite documentazione riguardante il monastero di Roccadia. Solo una notizia del Pirri, ripresa tra l’altro dal Mugnos, riguarda i primissimi anni del regno aragonese sull’isola: nel 1284 Pietro d’Aragona largheggia in concessioni e immunità per l’abbazia lentinese. Tre anni dopo, nel 1287, in una lettera papa Onorio IV nomina l’abate di Roccadia, tale Aloisio, al fine di dirimere una contesa territoriale tra il monastero di S. Maria la Scala e S. Maria in Valle di Giosafat presso Paternò.
 
Le condizioni economiche di S. Maria di Roccadia, alla fine del XIV sec. risultavano, comunemente a molti altri istituti sacri, critiche. Nel 1390 l’abate Antonio fu colpito da scomunica causa inadempienze fiscali da parte del monastero nei confronti della Camera apostolica. Ma già nel 1376 il predecessore di Antonio, frate Pietro, chiese un prestito all’abate di Roccamadore, Nicola di Perretta. Il debito ancora nel 1397 non risultava estinto e al fine di rientrare in possesso della somma concessa, una cifra non indifferente, ben undici onze d’oro, lo stesso Nicola pare fosse costretto a interpellare re Martino, il quale, contrariamente alle aspettative, rinviò l’esecuzione del debito. L’aver partecipato alla ribellione di Raimondo Monacada, tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, fu per l’abate di Roccadia Antonio un’altra mossa errata, le cui ripercussioni colpirono gravemente le rendite del monastero. Martino, per ritorsione, infatti privò Roccadia delle rendite della grangia di S. Maria de Catarractis, presso Ragusa, assegnandoli nel maggio del 1398 ad un prete di Lentini, vittima della ribellione. Solo al termine delle lotte e dopo la rioccupazione di Lentini, Martino si decise a restituire beni e rendite che il monastero possedeva nel paese.
 
Nel 1407 fu elevato a carica di abate del complesso lentinese “Joannes de Tharest”, sotto la reggenza del quale, almeno a detta del Pirri,  “…Roccadiae fabricis auxit, ac vetustate collapsum restituit…” . Un brevissimo passo nel quale si apprende, per il monastero, della necessità di restauri agli inizi del XV sec., non tanto a causa di possibili eventi naturali disastrosi, quanto per l’antichità delle fabbriche, presumibilmente ancora quelle risalenti all’ultima ricostruzione del 1262/1263. A conferma della gravità della situazione, nel 1437 l’abbazia versava in stato di estrema povertà, tanto da non poter sostentare i frati e celebrare le funzioni religiose. Infatti al dissesto finanziario si era anche aggiunto il cattivo governo dell’abate Nicolò della Solfa, che venne prontamente accusato di alienazione e dissipazione dei beni del monastero. Conseguentemente l’abate venne deposto e sottoposto ad un processo lungo ed estenuante dal quale ne uscì con un vitalizio di 5 onze d’oro annuali, pagate dal nuovo abate di Roccadia, frate Guglielmo de Sgarbo, che prontamente chiese l’annullamento di tale obbligo, anche in conseguenza delle finanze dell’abbazia, ormai al collasso.
 
Fra gli ultimi abati del XV sec. si ricorda  “Joannes de Girifalco”, del quale non conosciamo la data di elezione, sebbene il Mongitore si dilunghi alquanto in relazione ai suoi nobili natali e alla sua influente parentela a corte. Tra l’altro, lo storico ricorda che all’interno del monastero di Roccadia giaceva sepolto il fratello di Giovanni, tale Tommaso de Girifalco, secondo quanto ricordato da una iscrizione forse ancora visibile all’epoca del Mongitore, il quale ne riporta per intero l’iscrizione.
 
Prima del “regime di commenda”, l’ultimo abate a reggere il complesso sacro di Roccadia fu Romano Testa, eletto secondo volere regio nel 1451, per quanto tale scelta venne subito contestata dal pontefice, che in violazione della “legatia apostolica” elesse un tale Giovanni Aurispa. Ne nacque un contenzioso, per la cui risoluzione re Alfonso chiamò in causa gli abati di S. Nicola l’Arena e S. Maria di Nuovaluce, a sottolineare ancora una volta non solo la volontà regia di mantenere il controllo sul potere spirituale della chiesa sull’isola, ma anche ad evidenziare rapporti e giochi di potere che sussistevano tra monasteri non proprio limitrofi e di ordine religioso diverso. Non a caso la contesa si risolse con la piena riabilitazione, nel 1457, di Romano Testa, morto appena quattro anni dopo, nel 1461.
 
Topografia e architettura di S. Maria di Roccadia
 
La storia del monastero di Roccadia, così come è possibile ricostruirla attraverso le fonti documentarie giunte fino ai giorni nostri, è, in sostanza, uno spaccato della storia ecclesiastica siciliana, coinvolgente non solo l’ambito territoriale lentinese, ma anche catanese e messinese. Purtroppo all’interno di questa vicenda storica tanto articolata la perdita maggiore si deve registrare nella totale scomparsa delle fabbriche del complesso sacro a causa di una calamità naturale, questa volta ben registrata dalle cronache del tempo: il terremoto del 1693. Mongitore recita quasi un epitaffio sulla scomparsa del monastero: “… ex Terraemotu Coenobum solo aequatum; quare in Oppido Carleontinensi Monachi novum magnificis fabricis sunt moliti ad plagam septemtrionalem, intra ipsius Oppidi moenia…”. L’intero complesso venne, dunque trasferito all’interno dell’abitato di Carlentini, scomparendo come unità ecclesiastica a sè stante rispetto alla vicina vita urbana.
 
Sul luogo di fondazione dell’antico complesso apprendiamo labili notizie sempre dal Pirri, “… situm olim id Monasterium sub S. Mariae de Roccadia titulo in Emporio Leontinensi, ejusque territorio ad tria milia pass ab Oppido…”. Inoltre V. Amico offre una breve descrizione dei luoghi su cui insisteva il monastero, ricordando, tra l’altro, la presenza di vistosi ruderi, fra cui un’ampia sala circolare coperta da volta costolonata sorretta da pilastro centrale. Qualora il complesso fosse giunto intatto ai giorni nostri, pur con i diversi rifacimenti avvenuti nell’arco dei lunghi secoli di vita, sarebbe stato certamente un interessante esempio di architettura normanno/sveva. Bisogna comunque sottolineare l’assoluta assenza di ricerche in campo archeologico, che ovviamente avrebbero potuto, se non restituire una perfetta visione delle antiche strutture, almeno definire meglio l’estensione del complesso, scandendo le diverse fasi edilizie ed evidenziando il rapporto che il monastero intratteneva con il territorio circostante. Ad oggi questi dati mancano del tutto e, pertanto, il presente scritto deve considerarsi per forza di cose incompleto.
 
Bisogna considerare come marginale la questione legata ai resti del complesso sacro ancora oggi esistenti in località Agnone Bagni, non lontano dalla costa lentinese, che la maggioranza degli storici siciliani, sulla base di una affermazione del Manriquez, ha voluto attribuire alla volontà di Federico II di trasferire il monastero di Roccadia in sito più consono e ameno. Si tratta di ipotesi possibile, sebbene non rimanga alcun documento che confermi il trasferimento della comunità cistercense di Lentini dalle colline verso la costa. Forse il documento mai venne scritto, poiché le fabbriche di Agnone Bagni rimasero, come ancora oggi è possibile osservare, incomplete: il cantiere, infatti, giunto circa a tre metri di alzato venne smantellato e mai più ripreso. Le motivazioni di questa sospensione sono a tutt’oggi sconosciute, per quanto le ragioni forse debbano essere trovate nella crescente ostilità del papato nei confronti della politica federiciana e ancora nella forzata partenza dell’imperatore verso la Terrasanta.
 
Qualunque corso abbiano avuto le vicende, quel che rimane ai giorni nostri è, in sostanza, l’impianto di una basilica a tre navate, con tre absidi quadrate e orientamento est-ovest. La tecnica edilizia rimanda senza alcun dubbio, e nei materiali e nella perfezione delle misure, ad una fabbrica federiciana come quella di Castel Maniace o, come attualmente preferisce la storiografia più recente, a Castello Ursino di Catania, al quale i ruderi di Agnone Bagni si vuole siano vicini cronologicamente.
 
I resti dell’edificio sacro sono composti da un alzato che solo sul fianco settentrionale raggiungono circa  tre metri di altezza. La muratura, spessa cm. 260,32, è formata da un comune nucleo centrale di pezzame e malta e due paramenti, esterno ed interno, composti da doppia fila di conci squadrati e stilati a chiodo. Quel che rimane del prospetto principale è appena sufficiente per dare una semplice visione d’insieme dell’imponenza dell’impianto: esso si conserva per l’altezza di nove assise di conci alti in media cm. 35 e larghi sino a m. 1,50. I filari posseggono un andamento ordinato, sebbene esso risulti ovviamente interrotto in corrispondenza dell’innesto con quel che rimane del portale, costituito da conci più alti, nei quali risultano intagliate le decorazioni. Questo ingresso ha una larghezza di oltre cinque metri e presenta un profilo a “greca” che ha indotto alcuni studiosi a paragonarlo al portale principale di Castel Maniace. In realtà pare che le analogie permangano solo per l’ampiezza e la forma delle basette di colonna. Ultimamente si ritiene che maggiori corrispondenze si possano, invece, trovare con il portale  della basilica di Maniace, presso Bronte, almeno relativamente alle colonne maggiormente aggettanti sul filo del muro rispetto a quelle presenti presso il castello Maniace di Siracusa.
 
Le tre navate della chiesa sono suddivise da dodici pilastri centrali e tredici semi colonne addossate alle pareti interne e realizzate da pile di conci di altezza compresa tra i 25 e i 40 cm., la cui disposizione e il cui taglio sembrerebbe ricordare più da vicino la fabbrica del Castello Ursino.
 
L’area presbiterale si compone di un transetto rettangolare, sporgente sulle navi per una misura pari alla profondità delle navate laterali, largo tanto quanto la navata centrale e profondo in misura simile alla larghezza. Inoltre il muro nord del transetto presenta un’apertura archiacuta, ancora oggi ben visibile. Riguardo alle absidi, invece, è possibile osservare un ampio rimaneggiamento dovuto all’impianto di fabbriche moderne che hanno trasformato soprattutto l’abside centrale in cappella padronale. A causa di queste radicali trasformazioni purtroppo rimangono solo pochi metri di alzato relativi all’ampio arco di trionfo composto da pilastri rientranti ed angoli a quarti di colonna. La muratura delle tre absidi è formata, all’esterno, da conci regolari di grandezza inferiore rispetto a quelli osservati nel resto dell’edificio e solo i cantonali si mostrano rinforzati da conci di grandezza pari a quella precedentemente analizzata, ad esempio, nel prospetto. Inoltre l’attacco a terra si offre mediato da uno zoccolo unito alla parete per mezzo di un’unica cornice composta da una scozia profonda compresa da due tori.    
 
I recenti studi hanno analizzato con maggiore dovizia i moduli costruttivi utilizzati per erigere la basilica del Murgo. L’unità di base utilizzata è, pare, la misura di cm. 32.54, in sostanza il piede delle misure arabe canoniche. La profondità complessiva dell’impianto è pari a 254 moduli più uno legato alla base esterna della colonna del portale principale, per un complessivo totale di 255 moduli. I rilievi in pianta hanno inoltre evidenziato che il transetto è la metà esatta della lunghezza totale dell’edificio, tolto lo spessore murario delle absidi. La nave, inoltre, possiede un’ampiezza pari ad n terzo della lunghezza totale, similmente al lato breve de transetto. Le due navate laterali contano 17 moduli, quella centrale 35.
 
Da una simile analisi, secondo alcuni studiosi è possibile evincere una metodologia costruttiva che non preveda prima il completamento delle absidi e del transetto, ma, la realizzazione del corpo di fabbrica sembrerebbe procedere dall’esterno verso l’interno, cioè attraverso l’edificazione prima delle navate laterali e delle absidi, successivamente della navata centrale e del transetto. Tecnica simile sembra osservarsi pure nell’edificazione di Castel Maniace a Siracusa e Castello Ursino a Catania, con il quale sembrerebbero risaltare alcune similitudini relativamente alla tessitura muraria dell’interno e, come precedentemente accennato, alla modalità di realizzazione delle semi colonne. Forse sulla base di queste semplici osservazioni si potrebbe dire che la basilica incompiuta di Agnone Bagni sia da porre in un arco cronologico compreso tra i due citati castelli, forse in un periodo più vicino alla realizzazione del castello catanese.
Per certi versi la basilica del Murgo rimane un “unicum” edilizio che per alcuni versi unisce la Sicilia alle tecniche edilizie continentali. L’utilizzo di absidi quadrate, ad esempio, per quanto non sia del tutto avulso dalla cultura isolana, certamente non è diffusissimo fra le superstiti chiese cronologicamente più o meno coeve. Anche le altre caratteristiche edilizie osservate spingono a immaginare l’immissione in suolo siciliano di maestranze provenienti dal continente e opportunamente inserite nel tessuto sociale e artistico dell’isola per volontà di Federico II. Che queste maestranze, almeno quelle adibite alla direzione dell’opera, fossero di origine cistercense rimane l’ipotesi più credibile, sebbene probabilmente l’apporto di manodopera locale fosse quantitativamente non indifferente, vista anche l’ampiezza progettuale rimasta purtroppo solo nella mente dei realizzatori.

Bibliografia
 
S. Fodale, Il clero, op. cit., pp. 98 e s.
 
V. Amico. Lexicon Topographicum Siculum, vol. II, pp. 429 e seg.
 
S. A. Alberti, La basilica del Murgo, in Federico II e la Sicilia, dalla terra alla corona, vol. II, arti figurative e suntuarie a cura di M. Andaloro, pp. 449 e seg.;
 
G. Agnello, Architettura sveva in Sicilia, pp. 235 e seg.

Secondo G.Agnello l’abbazia cistercense di S.Maria di Roccadia sarebbe stata venduta dal Governo borbonico al barone Giovanni Riso, che avrebbe costruito sui ruderi il suo palazzo. La Guida TCI però segnala nella zona archeologica a sud della moderna Lentini, «i ruderi della chiesa e del convento, crollati nel 1693», la cui entità dovrebbe essere sufficiente per risalire alla planimetria originaria.

Le seguenti foto di Roccadia sono di Stephen Tobin, tratte dal sito http://www.cistercensi.info


Lentini - Tradizioni & Cultura ® www.lentinionline.it