Lentinita': storia e personaggi
... per non dimenticare
 
SOMMARIO
La tutela della lentinita'
Eutimo e la lentinita'
Lentini, Siracusa e gli Arabi
Anche l’antica Leontini fra le citta' marinare?
Gorgia e le sue opere
Gorgia, maestro di stile ma non di vera arte
I bronzi di Riace sono lentinesi? giu2009
Riccardo da Lentini, sublime architetto federiciano
Federico II di Svevia: la corona del Sacro Romano Impero dic2014
Francesco Marino - 1923: Una  battaglia contro il latifondo Leontino
“1920, due donne uccise nella Piazza di Lentini”
Caracausi. Un insediamento rupestre nel cuore di Lentini
La Banda Musicale di Lentini (1839-1958)
Salvatore Caracciolo
Francesco Brigante Gaeta
Cirino Paone "Leonzio" - eroe della Resistenza giu2009
Figli della memoria fossile : F. Insolera e F. Bonfiglio
Mons.Francesco La Rosa, maestro di vita cristiana dic2008
Luigi Bugliarello, un lentinese da non dimenticare dic2008
Carlo Lo Presti, artista di multiforme ingegno 0127
Sebastiano Amore
Il terremoto di S Lucia - 13 Dicembre 1990
1999: due lentinesi alla ribalta dello spettacolo e della cultura
La Corale Polifonica "Ad Dei Laudem" 0111
Lentini e Carlentini: matrimonio possibile ? 0107
Ermanno Di Pasquale: un pianista virtuoso 0212
Eugenio Colombo - celebre spalla di Angelo Musco 0212
Salvatore Brancato: Premio Archeoclub "S.Pisano Baudo" 2002
Un salto nella storia: Rinascita di Lentini "elezioni ammin.del 6 nov 1960" 0509
Il Mercato del Giovedi’ - una festa per la città di Lentini 0512
Gaetano da Lentini: ambasciatore dei randagi giu2009
Nella Piccolo e "La voce dell'anima" 0601
Le Incartatrici - Tra figure femminili e vecchi mestieri 0601
Salvatore Lazzara: il Partigiano Matteo 0603
Luigi Briganti: Fortunello dic2009
Filadelfo Aparo: eroe dell'antimafia ago2014
Padre Sebastiano Castro: tra la gente, con discrezione mar2006
Pippo Centamore: un caro ricordo ott2008
Spartiti Associati: per non dimenticare giu2015

 

 
La Tutela della lentinita’       A cura di Gianni Cannone (La Notizia 1997)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
La tutela della lentinità è una strada molto difficile. Del resto Lentini  non ha mai custodito gelosamente il suo passato, il suo essere identità nel mito e nella storia. Se si è consapevoli di questo,cioè che il futuro di Lentini si costruisce passo passo attraverso la preservazione e la promozione del mito e delle antichità, allora tutto quello che si fa e si è fatto in direzione opposta o diversa è stato e continua ad essere, di certo, contro natura.In poche parole: non si possono sposare continuamente cause che nulla hanno a che vedere con la valorizzazione della vocazione territoriale e storica di Lentini. Senza la coltivazione del passato è chiaro, in sostanza, che ogni processo di identificazione culturale va a farsi benedire comunque. L’agricoltura, ad esempio, è stata sempre la ricchezza di Lentini. Il riferimento,però,riguarda  epoche molto lontane. Parlarne, per non dimenticare, non è mai male. La ricchezza del suolo leontino, infatti, risaputa e rinomata in tutto il mondo antico, vide Aristotele impegnato in questa quanto mai appropriata  e bellissima esposizione: Agrum Leontinum adeo pinguis pabuli feracem esse, ut oves ob pinguedinem saepe intereant, idcirco pastores adveniente vespero seroque diei pecundum greges ad caulas reducere solent, quaminus copiant pascue adeo ubertate ager ille luxuriat. Praticamente i pascoli dei Campi Lestrigoni, sempre secondo la testimonianza di Aristotele,erano talmente feraci che gli stessi armenti correvano il rischio serio di morire per pinguedine. Ragion per cui erano gli stessi pastori che provvedevano con estrema cura a farli  rientrare  nei loro rifugi prima di sera onde evitare che essi, mangiando senza l’opportuno controllo durante il giorno, potessero trovare una inevitabile morte. Diodoro Siculo, da parte sua, è sicuro che proprio la terra di Sicilia, luogo sacro a Demetra e a Core, generò per la prima volta il frutto del grano. Lo storico siciliano di Agira, inoltre, per avvalorare la bontà della sua tesi, si serve a ragion veduta dei seguenti versi di Omero: ...ma inseminato ed inarato là tutto nasce grano, orzo, viti che portano il vino nei grappoli,e a loro li gonfia la pioggia di Zeus. Lo stesso Diodoro,dopo,eleva  la  piana di Leontinoi a simbolo della fertilità siciliana: Ed infatti nell’agro leontino e poi in molti altri luoghi della Sicilia, nasce anche ora il così detto grano selvatico. La stessa cosa, con altrettanto scrupolo,ripete più tardi il Fazello: E tutti gli antichi scrittori son convenuti d’accordo a dire che il primo grano che nascesse in Sicilia, nacque per forza di natura da se medesimo. Perocchè non solamente s’è veduto nascere il frumento selvatico nel paese leontino, come afferma Diodoro,ma ai miei tempi ancora s’è veduto nascere non solo quivi, ma anche in altri  luoghi della Sicilia. A Leontinoi soprattutto, in quelle forme assai generose, crescevano, pertanto, non solo l’orzo e il grano ma anche le viti. Un esempio classico,in verità,ci è dato dall’uva murgentina, detta così in ricordo di un importante nucleo di Morgeti stanziati in una contrada del territorio leontino, denominata Murganzio, dove nell’antichità c’era il porto di Leontinoi. Le viti dell’agro leontino, insomma, tanto celebrate nei tempi andati da Plinio il Vecchio e dal  Fazello, allorchè furono esportate nel Sorrentino persero in quei posti l’antica denominazione ed incominciarono a circolare con il nuovo nome di uva pompeana o greca". Una riflessione conclusiva: per fortuna della civiltà le memorie  possono  essere sì calpestate, ma giammai cancellate da alcun Potere.     
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
Salvatore Caracciolo     A cura di Gianni Cannone (Notizia 1997)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata 
 
Non tutti sanno che il busto di Gorgia, il sommo sofista   della gracità, è opera dello scultore lentinese Salvatore Caracciolo, la cui firma porta la data del 1935. Dice, a tal proposito, Michele Minniti  nel suo libro, Interpretazioni di Siracusa: La visita di Lentini si può iniziare,dopo l’ingresso dal Giardino Pubblico, in cui s’ammira un busto di Gorgia, il noto sofista  e oratore, opera di S.Caracciolo. Non tutti sanno, altresì,che uno dei più amati poeti dialettali siciliani,il lentinese Ciccio Carrà Tringali, dedicò al concittadino Turi Caracciolo, bravo scultore della nostra terra, figlio del Pitagora Leontino, un sonetto di pregevole fattura, che LA NOTIZIA oggi fa bene a pubblicare, soprattuto per non dimenticare. Ecco il sonetto in questione:
 
A LU SCULTURI  TURI  CARACCIOLO
      La divina natura capricciusa
di li quattru bell’arti,desi a tia
di lu scarpeddu bedda e gluriusa
finizza d’occhiu e ricca valintìa.
      Giustu a li preggi toi resta cunfusa
ch’è troppu scarsa la me’ fantasia,
partiu ccu cori tanta ginirusa,
persi li tracci e m’arristò pi via.
     Ma l’ignuranza,ca fa eterna verra
pi oscurari li genii di natura
contra li figghi di ‘sta santa terra,
     ‘sta terra di gran  luci e di bell’arti,
Pitagura di cui n’appi bravura
e  tu d’alunnu so’ n’avisti parti.
CICCIO   CARRA’  TRINGALI                            
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
Francesco Brigante Gaeta     A cura di Gianni Cannone (Notizia 1997)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
( G.C.) Il  28  gennaio 1897  nasceva  a Lentini Francesco Brigante Gaeta. Nella vita,prima di andare in pensione, il Brigante Gaeta svolgeva diligentemente la sua prestazione di  lavoro come custode carcerario. A Lentini, un tempo, c’era anche un Carcere!  Ma questa è un’altra storia. Ritornando a Francesco Brigante Gaeta,una cosa fa piacere non dimenticare: Egli era  anche un poeta, un sensibilissimo e bravo poeta dialettale siciliano. LA NOTIZIA, con la pubblicazione di due poesie siciliane del   Brigante Gaeta,  veramente belle, intense e  vive, vuole ricordare oggi, significativamente,questo figlio emerito di Lentini. La prima lirica è un sonetto dal titolo Sira  d’infernu, dove il Nostro - così annota il critico Enrico Giansiracusa - è tanto vigoroso per Arte, quanto dolce ed espressivo nella poesia. Poi un’ottava: Lu Pisaturi. Ma c’è di più. Che dire della sua pubblicazione Suspiri e lacrime, la cui prefazione fu addirittura approntata da Vincenzo De Simone,caposcuola riconosciuto del parnassianesimo siciliano ? Per finire: Francesco Brigante Gaeta, come i rimatori della Scuola Siciliana di Jacopo, fu funzionario e poeta. Ergo: il restauro della memoria dentro una LENTINITA’ attiva e vera resta sempre e comunque un imperativo categorico  da   perseguire diuturnamente.
 
Prima lirica: Sira d’inferno
Chi tempu tristu e chi friddazzu amaru / sciùscia  ‘ntra sta tirrìbbili sirata: / chiovi e lu ventu pari  ,n lupinaru, / ca sbatti pianti e scrusci a la vitrata. / Lu filu frisca cumu  ‘n picuraru, / ca chiama li so’ creggi a la vaddara; / lampi  ccu trona accordunu di paru, / e l’acqua scurri ccu la so cantata. / ‘Ntra ‘na casuzza affritta,nda na gnuni / ‘na vicchiaredda è misa a la bracera, / ccu la testa di latu appinnuluni. / ‘Nda vecchiu cantarànu cc’è addumata, / davanti a ‘na Madonna,’na lumera / ca trèmula fa luci a dda casata.
 
Seconda lirica: Lu   Pisaturi
<Nomu del Patri>,ca ju càcciu e cantu, / <...di lu Figghiu...>,muredda e tu mirrina, / e ccu l’ajutu du <Spiritu Santu>, / a chisti gregni sdàtici la schina; / e <cusì sia>,stinnìtici lu mantu, / ca pronta è la  tradenti e,mentri mina, / sfamu l’umanitati e n’haju vantu, / ca spagghiu e ‘nzaccu lèvitu e farina.’                             
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
EUTIMO E LA LENTINITA'        A cura di Gianni Cannone (Notizia 1997)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
Questo valoroso comandante della cavalleria leontina di Iceta, ammirato da Plutarco, viene condannato a morte dall'arroganza di Timoleonte, perché si era permesso, a difesa della Patria, citando alcuni versi della Medea di Euripide, di usarli, a giudizio degli abitanti della madrepatria di Siracusa, come momento di scherno contro i Corinti. Al tempo di Dionigi  il giovane, i Siracusani, costernati per la perdita della libertà, si rivolgono a Iceta, tiranno di Lentini, e chiedono protezione. Iceta da Lentini (a titolo di cronaca c’è oggi nella nostra città una via Iceta) non si fa assolutamente pregare e, accogliendo senza riserve l’invito pressante dei Siracusani,si pone subito al centro dell’attenzione, in Sicilia e  fuori della Sicilia, come l’anti-Dionigi. Il Leontino cerca segretamente di allearsi con Cartagine,ma sa anche,nello stesso  tempo, perfettamente bene, che se vuole effettivamente avere Siracusa  non può più correre il rischio  di   rompere apertamente con i Greci di Corinto.Un grande movimento di navi cartaginesi attorno all’isola  allarma, però, i Siracusani che stimano urgente chiedere l’aiuto di Corinto. Iceta, trovandosi spiazzato da questa iniziativa   imprevista e imprevedibile, fa allora buon viso a  cattivo gioco, ma partecipa ugualmente, suo malgrado, con amici fidati, alla missione esplorativa, convinto com’è che i Corinti, una volta negata  ai  Siracusani l’assistenza, gli avrebbero spianato automaticamente la strada per  impegnare ufficialmente i Cartaginesi nella lotta contro i Siracusani o contro Dionigi. In una lettera, ormai famosa, fatta pervenire a Corinto, Iceta consigliava, fra l’altro, ai Corinti di lasciare perdere qualsiasi idea di organizzare ancore spedizioni militari in Sicilia in quanto egli,con l’ausilio  dei soli Cartaginesi, stava   già provvedendo a liberare Siracusa e la Sicilia dalla tirannide di Dionigi. Scoperto anzitempo il gioco del tiranno di Lentini, a Corinto si decide di nominare celermente, quale generale supremo della spedizione, Timoleonte. Nel 345 a.C. Timoleonte, avendo con sé dieci navigli ben assortiti, parte per liberare Siracusa, colonia corinzia. Timoleonte sbarca a Reggio da dove apprende che Siracusa era già nelle mani di Iceta. Apprende, altresì, il Corinzio che Dionigi si era rifugiato precipitosamente  nella cittadella dalla quale si accingeva a governare le sue ultime  illusioni. Timoleonte, nonostante  le numerose avversità, oltrepassa lo Stretto e, dopo alterne vicende, libera definitivamente Siracusa dalla dittatura  di Dionigi II. Debellati, infine, a Cremiso anche  i  Cartaginesi, Timoleonte riserva l’ultimo capitolo a Iceta da Lentini. Il tiranno, infatti, è arroccato a Lentini e, fra l’altro, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Ma la storia a favore della democrazia e della libertà è in ogni  tempo inarrestabile. Marcia così il Corinzio verso Lentini, espugna la città e poi si fa consegnare vivi dal popolo leontino sia Iceta che il di lui figlio Eupolemo. Padre e figlio vengono condannati a morte senza pietà da Timoleonte.Anche al valoroso comandante della cavalleria leontina, Eutimo, tocca la stessa sorte.Sentiamo come. Eutimo,dunque,durante una affollatissima assemblea tenutasi a Lentini,si era permesso, citando alcune parole prese dalla Medea di Euripide, di usarle come momento di scherno contro i Corinti. Il fatto è documentato da Plutarco:  << Eutimo, benchè fosse un combattente leale e di  eccezionale coraggio, non trovò compassione a causa di un insulto che lo si accusò di aver commesso contro i Corinti: si narra che quando i Corinti decisero la spedizione contro i tiranni, Eutimo in un discorso che fece davanti al popolo di  Leontìnoi  disse che non c’era da spaventarsi  né da sgomentarsi  se donne corintie  uscirono di casa>>. Eutimo, praticamente, pagò con la vita la difesa della LENTINITA’. Forse se fosse stato meno valoroso,se non fosse  stato  un valente generale, se  non fosse stato così  sfortunato, se  non avesse conosciuto quei versi di Euripide , figlio eccelso della Sofistica gorgiana, sicuramente Plutarco non l’avrebbe preso nemmeno in considerazione. Ma la vera Lentini può ignorare sempre tanta autentica grandezza?     
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
LENTINI, SIRACUSA e GLI ARABI   A cura di Gianni Cannone (Notizia 1997)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
In  queste  ore, alla vigilia delle votazioni amministrative (30 novembre 1997), i sentimenti di smarrimento e di speranza, per questa nobile città di Lentini, costantemente “degradata”, ma fortunatamente mai irrimediabilmente perduta, si susseguono a ritmi vertiginosi. Per il ritorno di Lentini agli antichi splendori in tanti ci troviamo ad essere debitori.
 
827 dopo Cristo : è il momento  della   calata musulmana  in  Sicilia, a spese del dominio bizantino. Tutte le città cadono puntuali, di volta in volta,  sotto i colpi degli Arabi conquistatori. Spunta, allora, il giorno dell’Islam nella Sicilia per conquista mirata e ricercata. Come fu presa Lentini ? All’interno della  “Storia dei Musulmani in Sicilia” di Michele Amari , c’è nitida la fotografia dell’assedio e della tragicomica resa di Lentini mediante il ricorso di uno stratagemma tanto vero quanto  infelice  per i Lentinesi: “Andato all’assedio di Lentini,antica e notissima città,il vincitore di  Messina che li capitanava, trovò modo di terminar presto l’impresa. Risapendo che i cittadini avevan chiesto soccorso al patrizio il quale si chiudeva con le genti entro Siracusa e Castrogiovanni, e che quegli aveva concertato con loro un doppio assalto per prendere in mezzo i Musulmani, al-Fadl ritorse lo stratagemma  contro il nemico. Mandato ad accendere il fuoco per tre notti sopra un monte a vista della città, chè tal era il segnale ordinato dal patrizio, il capitano al quarto dì lascia poche genti sotto Lentini; pone le altre in agguato; e commette alle prime che alla sortita  dei cittadini facciano sembiante di fuggire verso l’agguato. E  al   quarto dì i Lentinesi,   armatisi popolarmente per andare a sicura vittoria, la credettero guadagnata ad un soffio, quando videro i Musulmani volger le spalle: onde tutti si posero ad inseguirli; nè rimase in città uom che potesse combatter bene o male. Trapassato il luogo delle insidie, i  fuggenti rifan la testa; le altre schiere avviluppano i Cristiani; li mettono al taglio della spada: e pochissimi ne camparono in città. Pertanto questa si arrese”. In Sicilia,però, la preda che fa più gola è Siracusa, la città più famosa dell’isola,che è costretta, a sua volta, a subire,da parte maomettana, una terrificante devastazione.  E’ il monaco Teodosio, infatti, che,prigioniero a Siracusa, racconta attimo per attimo le giornate terribili del massacro, delle violenze e delle spoliazioni all’interno della città. La povera Siracusa, vittima di questa ennesima persecuzione e di questa incredibile carneficina, viene espugnata nell’anno 878 d. C.  Il racconto,sempre dell’Amari, storico siciliano fra i più grandi e arabista di sommo grado, non fa altro che ripetere il pietoso ritornello di una Siracusa sfigurata nel volto, nel corpo e nell’anima: “Il numero dei morti in tutte queste carneficine passò i quattromila, dice Ibn al-Atir, aggiungendo che pochi, pochissimi camparo... Montò il valsente del bottino, secondo Teodosio, a un milione di bizantini che ne darebbero tredici delle nostre lire; nè par troppo per tanta città; nè arriva a quello che crederebbesi, leggendo negli annali musulmani non essersi mai fatta sì ricca preda in altra metropoli di Cristianità... Per due mesi circa abbatterono fortificazioni, spogliarono tempii e case: alfine vi messer fuoco, e andar via all’entrare di agosto: questo fu il fine di Siracusa antica: rimese un labirinto di rovine,senz’anima vivente”. Di fronte a questo scenario ossessivo di rovine e di distruzione, si esaurisce tristemente anche il ciclo storico dell’egemonia politica e culturale di Siracusa antica nel mondo. Gli Arabi dividono la Sicilia in Val di Noto, Val Demone e Val di Mazara e, nello stesso tempo, trasportano la capitale e gli interessi socio-economico-politici da Siracusa a Palermo. Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, eccetera, eccetera, non sono più in grado di restituire a Siracusa il riconoscimento dell’antica dignità greca. L’illusoria fase della Camera Reginale, di cui anche Lentini ne fa parte integrante, richiama alla mente un aspetto “frivolo” di vita associativa particolare; non proteso, però, verso un dopo seriamente programmato. Gli Arabi, che chiudono il loro ciclo di dominatori della Sicilia nel 1040, introdussero nell’isola, fra l’altro, anche la colivazione degli agrumi. In queste ore, alla vigilia delle votazioni del Consiglio Comunale (30 novembre 1997), dell’avvento della  nuova  Giunta  e dell’elezioni del Sindaco, i sentimenti di smarrimento e di speranza per questa Lentini costantemente  “degradata”,  ma  fortunatamente mai irrimediabilmente perduta, si susseguono a ritmi vertiginosi. Una verità,comunque, appare  a tutto tondo senza fiato: per il ritorno di Lentini all’antico splendore  in tanti  ci troviamo ad essere debitori. Stesso discorso vale per Siracusa. Difatti una  classe dirigente che non sia impregnata di “siracusanità” e di “lentinità” non merita minimamente di essere tenuta in considerazione, sia a Siracusa che a Lentini. L’appello alla ricerca vera di una   “Voluntas Syracusanorum” da   una  parte e  di  una  “Voluntas Leontinorum” dall’altra, non può costituire,in ogni modo, sempre e solamente un grido.             
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
RICCARDO DA LENTINI     (La Notizia 1997- di Gianni Cannone)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
Nella storia dei castelli svevi un posto di rilievo assoluto spetta, senza dubbio alcuno, all’architetto federiciano Riccardo da Lentini. Durante il regno di Federico II di Svevia, infatti, l’autorità, il prestigio e la stabilità dello Stato si reggevano,principalmente,attraverso una politica militare che, alla fine, si concretizzava nell’arte della costruzione di fortezze robusta, sicure,imprendibili. Vengono indicati i castelli federiciani come pupille dell’architettura militare sveva essendo di vitale importanza questo tipo di edilizia ai fini della sicurezza regnicola. Le fortificazioni militari di rifacimento  o di nuova costruzione si svilupparono, dunque, in stretta connessione con la difesa del regno federiciano ed ebbero, appunto,come architetto di corte proprio il lentinese Riccardo. Nel territorio federiciano Federico II compie, dal 1220 al 1250, delle cose davvero portentose. Accanto ai castelli programmati per essere distrutti, trasformati o restaurati il grande svevo, stupor mundi, conduce l’impresa audace,accorta e superba di favorire, con forte passione e raziocinio,  anche la costruzione dei cosiddetti novorum aedificiorum. Tutte queste costruzioni, che pare fossero oltre duecento tra civili e militari, furono giudicate, in quel tempo, quasi una corsa sostenuta a ritmo vertiginoso contro il tempo.. Restano famose, a tal proposito, le parole che il giustiziere Tommaso da Gaeta, un vecchio e fedele funzionario federiciano, rivolge al suo indomabile e instancabile imperatore: ...per l’amor del cielo Maestà, concedetevi una tregua,procuratevi che gli edifici del vostro regno non sorgano tutti in una volta ! Dedicatevi prima di ogni altra cosa ad un’opera di bene, accetta a Dio come fecero i cristianissimi re di Sicilia vostri antenati, i quali costruirono chiese e monasteri anche tra i turbini delle vicende di guerra. La grande basilica del Murgo,in tal senso, fu l’unico esempio di monumento sacro che tuttora  rimane in piedi e può considerarsi, fra l’altro,una rarità,una vera e propria mosca bianca. E’ notorio, altresì, che nell’anno 1224,Federico II abbia dato disposizione  di edificare nel territorio di Lentini,oggi territorio storico, e precisamente nei pressi di Agnone Bagni, una chiesa cistercense, denominata basilica del Murgo, che, però, non venne mai portata a termine. Il clan dei lentinesi, tanto per capirci, sotto l’era di Federico II comprendeva,oltre ai nomi famosi e prestigiosi del Notaro Jacopo da Lentini e dell’altro poeta  lentinese della Scuola Siciliana, Arrigo Testa, anche e soprattutto quello di Riccardo da Lentini. Ma quale il valore di Riccardo da Lentini ?  A questo interrogativo risponde,intanto, Castel del Monte,da tutti ammirato recentemente grazie al film  Il nome della rosa. Castel del Monte,dunque, vertice della creatività architettonica, può essere guardato indistintamente da Canosa  o da Andria. Ebbene, il diadema d’Apulia, il  vertice della creatività architettonica profana medioevale, porta la firma dell’architetto Riccardo da Lentini, meglio conosciuto da tutti come praepositus  aedificiorum. Il professore  Enzo Maganuco,a tal uopo,in un suo saggio su Riccardo da Lentini dice testualmente queste cose: L’architetto leontino  muta stile con padronanza da dominatore a seconda della destinazione dell’opera. A nessuno  sfugge, infatti, come nel Castello Ursino di Catania, destinato sulla roccia specchiantesi nel mare  - prima che la colata lavica del 1699 lo circondasse  e  solidificandosi a contatto dell’acqua  lo allontanasse  dal porto  dal quale era stato eretto  a difensore - le decorazioni  e tutto l’apparato ornativo  sia ridotto a zero, badando  l’artista alla funzione difensiva e perciò ad una struttura potente e massiccia, pur elegante, però, nella sua secca snellezza e nella severità della teoria dei torrioni angolari  e delle torrette mediane. Ben altra attività creativa egli dispiega a Castel del Monte dove invece la destinazione a luogo di delizia, di caccia e di riposo permette all’artista risoluzioni estetiche  mirabili. Riccardo fu, si può ben dire, non solo l’amico e il funzionario fedele solerte e preparato, ma addirittura il vero Ministro dei Lavori Pubblici di quel mondo. Vedere, quindi i castelli di Catania, di Siracusa (detto erroneamente Maniace), e di Augusta che suno gli unici in Sicilia che il destino ha voluto che si  salvassero dalla crudeltà del tempo e degli uomini,   significa   soprattutto non essere estranei spiritualmente a quell’arte architettonica; significa altresì, poter rivivere quella realtà culturale e sociale con la stessa intensità e fantasia di allora. Avere sotto gli occhi la torre ottagonale di Enna è poi come scrivere una frase molto elevata. Tra la torre di di Enna e Castel del Monte si scoprono, inoltre,identità e parentele che, senza la mano comune di Riccardo, sarebbe stato impensabile che le due meraviglie fossero venute spontaneamente o facilmente alla luce, nel segno di una luminosa e perenne musicalità. Il mondo architettonico federiciano trova così, nel genio sublime e artistico del lentinese Riccardo, il suo eterno profeta.
 
(G.C.) - Durante la  stesura del  mio libro SICILIANITA’,  il pittore Franco Condorelli, con il pennello  sempre intonato alle  esigenze della  sua fantasia e della sua tormentata libertà spirituale, ha scritto,  disegnando a modo suo, cioè alla grande, alcune sequenze  della mia narrazione storico-letteraria. Tra queste c’è Castel del Monte : un disegno artisticamente pregevole che tocca specificamente la tematica del saggio "Riccardo architetto e i castelli federiciani". Cosa aggiungere? Franco Condorelli, artista vero e pittore di razza, una verità inconfutabile ha sempre chiara e possente dentro il sangue: la Lentinità. Ma le  ontologie totalizzanti di un potere malato, anzi "cadaverico", potranno mai interpretare la catarsi ?   
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
PER NON DIMENTICARE
SEBASTIANO AMORE  E’  SEMPRE CON NOI     di Gianni  Cannone   (La Notizia n.33-1999)
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
   Perché voglio  ricordare Sebastiano Amore ? Non c’è una ricorrenza particolare da motivare, non ci sono date di nascita e di morte da disciplinare. E allora? Intanto questo: Sebastiano Amore come mia tendenza unilaterale per non dimenticare. Mettiamola pure così. E poi rammentare la presenza di un uomo e di  un personaggio del valore di Sebastiano  Amore  che  a Lentini ha lasciato ricordi incancellabili è cosa, certamente, che può fare soltanto piacere. Specie se nessuno te lo chiede. E ciò è ancora più bello. Una “LIBRERIA AMORE”  a Lentini gestita ora, brillantemente, dai tre figli Pippo, Franco e Marcello parla chiaro da sola. Ma quel tempo fu, per l’indimenticabile amico Sebastiano Amore, una scommessa e una sfida. Sicuramente un atto di  coraggio assoluto. Il perchè è presto detto. Sebastiano Amore, infatti, per siffatta  attività commerciale, che tuttora può considerarsi, a Lentini, una vera  e  propria  istituzione socio-culturale, diede  le dimissioni  dal Consorzio di Bonifica “Lago di Lentini”. Lasciò anche il giornalismo (Egli era il vice corrispondente de “Il Corriere di Sicilia” di Catania e il corrispondente del settimanale  “Sport  Sud” di Napoli). LA NOTIZIA, in questo numero, ripropone, a testimonianza che i figli  migliori di Lentini sono sempre vivi a prescindere, la riproduzione di un pezzo  di  Sebastiano Amore, pubblicato ne “Il  Corriere di Sicilia” di  Catania  in  data 9 maggio 1956. (g.c.) 
Rappresentata l'Alcesti (Corriere di Sicilia del 9-5- 1956) - articolo d'epoca
Quarta Serie (La Diligenza del 29-5- 1955) - articolo d'epoca
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
IL TERREMOTO DI S.LUCIA (13 dicembre 1990)
Nella notte del 13 dicembre del 1990, ricorrenza della festa di S.Lucia, alle ore 1,24 la Sicilia Sud-Orientale fu’ investita da una forte scossa di terremoto (7° grado della scala Mercalli). L’epicentro fu localizzato nella zona antistante la baia di Brucoli. Molti ricorderanno ancora come le proprie abitazioni, per 45 interminabili secondi, rimasero in balia di un pauroso fremito. Tutti, in pochi minuti, si riversarono nelle strade e al buio (nel frattempo era saltata l’energia elettrica) cercarono riparo nelle auto o nelle piazze, lontano comunque da edifici o costruzioni. Tre secoli dopo tornava a tremare la terra. I dati offerti dalla protezione civile a 24 ore dal sisma furono drammatici: 12 i morti, 200 i feriti, 2000 i senzatetto. A Carlentini, che risulto’ il centro piu’ colpito, crollarono 3 case; due di esse, sbriciolandosi, seppellirono sotto le macerie 4 famiglie. Carlentini, il giorno dopo, sembrava un campo di battaglia: tra le macerie si prodigavano decine di soccorritori provenienti anche dalla vicina Lentini. Squadre dell’esercito montarono una tendopoli al campo sportivo per dare i primi soccorsi. Le vittime del terremoto furono sorprese nel sonno e recuperate tra le macerie di via De Amicis e Corsica. Si salvo’ solo Rosario Musumeci di 6 anni. Il povero bambino in una notte perse il padre, la mamma e la sorellina. In via Corsica abitavano 3 famiglie; la piu’ numerosa, quella di Agrippino Cardillo subi’ la perdita della moglie e delle due figlie Loredana di 21 anni e Antonella di 23: Morirono anche i 2 figli di Antonella, Antonio di 4 anni e Roberta di 1 anno e mezzo. In via Corsica viveva anche Santo Furnari di 28 anni e la moglie Carmela Vitale di 25. La coppia aveva 2 figli, che per fortuna quella notte dormivano dai nonni. Santo Furnari nel corso del terremoto protesse la moglie col proprio corpo, salvandolo ma egli venne trovato morto. Questi furono gli aspetti piu’ terrificanti della tragedia. A Carlentini, I quartieri piu’ colpiti furono quelli dell’ex lavatoio e della fiera. In tutta la zona molte furono le case lesionate. Molti senzatetto furono ricoverati presso amici e parenti o dentro le tendopoli, che furono subito installate nei campi sportivi. Edifici pubblici, come le scuole, furono attrezzati ad accogliere provvisoriamente i terremotati. Undici ore dopo il sisma una unita’ mobile dell’esercito, dotata di cucina da campo, fu in grado di preparare 1000 pasti. Due cani pastori tedeschi fecero miracoli, aiutando i soccorritori a trovare persone ancora in vita sotto le macerie o a localizzare i cadaveri. La notizia del terremoto, in poche ore, fece il giro del mondo. Saltate le linee telefoniche, grazie ai radioamatori locali, fu possibile lanciare richieste di aiuto. Ci fu tanto caos per le ristrettezze delle vie di fuga. Da ogni angolo del globo arrivarono telefonate di incoraggiamento e di solidarieta’. 
N.B.: Il rischio di un terremoto, come quello verificatosi nel 1990, e’ sempre presente nella nostra zona considerata ad alto rischio sismico. Chi volesse approfondire l'argomento puo' trovare notizie nei nostri link nella sezione "Sicilia".
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
FRANCESCO MARINO - 1923: Una  battaglia contro il latifondo Leontino
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
Un governo che non sa o non vuole ascoltarci ha poco da promettere al Mezzogiorno d’Italia” (F. Marino - “Una  battaglia contro il latifondo Leontino” 1923). Parole valide ancora oggi, solo che nel 1923 Francesco Marino che guidò una delegazione di contadini a Roma, ebbe il coraggio (lui antifascista e perseguitato politico) di dirle personalmente a Mussolini e al Ministero dell’Agricoltura Corbino, ottenendo quel che chiedeva: che non venissero revocate le concessioni temporanee di terre incolte alle cooperative, altrimenti sarebbe tornata la miseria in mezza provincia di Siracusa. Nel 1920, infatti, nel territorio di Lentini, Carlentini, Francofonte, Scordia e Pedagaggi, trentamila reduci di guerra aspettavano la terra che era stata loro promessa nel momento della paura e del disastro di Caporetto. Il territorio  di Lentini, che pur era il più ricco della zona, con i suoi 6.000 giornatai che per metà restavano disoccupati, e con le ondate periodiche di manodopera “dei contadini di Vizzini, Ferla, Modica, Militello, dove la giornata è di 5 lire al giorno quando si lavora”, era un “rigurgito di pezzenti” che si ingaggiavano a 7 lire al giorno e che lavoravano circa quattro mesi l’anno. Più della metà del territorio di Lentini era nelle mani di sedici famiglie che imponevano le loro condizioni. Quasi tutti i latifondi, ad eccezione di poche aziende coltivate ad agrumi con criteri moderni, rimanevano incolti perché “i contadini non avevano convenienza ad accettarne la concessione a causa delle pesanti condizioni imposte dai ricchi proprietari terrieri” (Prof. S. Lupo - “Il giardino degli aranci”). Lotte per l’imponibile di manodopera, rivendicazione di un’attività meno provvisoria, occupazioni di terre incolte, richieste di affitto a prezzi più equi, concessioni  temporanee a cooperative  delle   terre malcoltivate (come prevedeva il decreto Visocchi, 2 settembre 1919), scontri sociali, riforma agraria. Queste le tappe che scandiscono la storia di Lentini dall’inizio del Novecento al 1950. Queste le tappe, spesso drammatiche, che disintegrano il latifondo e portarono il benessere e lo sviluppo economico nella nostra città. Protagonisti di questa storia (che le nuove generazioni non conoscono perché non c’è la volontà di tramandarla), decisi e battaglieri, Francesco Marino, Filadelfo Castro e “quei pezzenti” che li seguirono. Non fu quindi “la rapidità e operatività che fece raggiungere alla popolazione di questa zona traguardi di benessere che difficilmente sono stati riscontrati di pari entità in altre zone del Meridione d’Italia” come un giornalista disinformato ha scritto il 3 gennaio c.a. in un articolo sul giornale  “La Sicilia”, ma sacrificio di uomini che lottarono per migliorare i loro destini e quelli dei loro figli. Non fu un miracolo allora, non è per una “iattura che nel volgere di pochi anni tutto si è capovolto” (come scrive lo stesso giornalista). Perché dar la colpa dei nostri errori alla iattura? La verità è che non abbiamo saputo gestire al meglio la nostra economia. Abbiamo affidato il nostro destino a politici incapaci, ci siamo rammolliti nel benessere prima, nelle elemosine dopo, nelle boccate di ossigeno oggi. In questi ultimi anni molto si è parlato e si è scritto ma poco si è fatto nella pratica. Oggi, che finalmente ci siamo resi conto che la nostra economia è in ginocchio, lanciamo un S.O.S.. E’ vero che la storia non si ripete, ma è anche vero che le combinazioni delle circostanze possono creare delle analogie, e oggi come nel 1920 Lentini è ritornata a essere il “rigurgito di pezzenti”. Non basta più un S.O.S. E’ necessario agire. Ma vi sono gli uomini capaci di battersi per il benessere della Comunità? (P.M.T.)   La Notizia    
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
Una pagina di storia
 “1920, DUE DONNE UCCISE NELLA PIAZZA DI LENTINI”    di Pina Marino Tropiano
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
Nel 1920, pare che due donne, due popolane, fossero state uccise nella piazza di Lentini. Di questo episodio, di cui qualcuno ha vagamente sentito parlare nei racconti dei propri genitori, ho trovato due testimonianze che discordano tra loro in quanto quella storia in cui la Lentini dell’immediato dopoguerra fu teatro di scontri sociali, anche violenti, viene raccontata in un’ottica diametralmente opposta. Era il periodo in cui cominciava ad affermarsi il movimento fascista, ma anche il periodo dell’ingresso dei contadini nella lotta politica e sociale. “Terra, miglioramento dei contratti d’affitto, aumento dei salari agricoli” era la loro aspirazione. Ed ecco la prima testimonianza tratta da un libro, quasi un diario, fra l’altro piacevole da leggere perchè è uno spaccato della Lentini che “fu”, scritto dalla signora A.F., pubblicato nel 1976: ....Il popolo, in gran parte analfabeta, era formato da contadini, giacchè il paese era eminentemente agricolo. Esso abitava a piano terra, in case composte da una sola camera con una sola porta, simile ad un altro, dove dormiva una numerosa famiglia e anche l’asino che, costituendo il mezzo di   lavoro, era  considerato un componente della famiglia......All’altro estremo delle classi sociali c’era la classe dei “nobili” o “cavallacci”, che vivevano in un’atmosfera medioevale, giacchè erano proprietari di feudi. Essi abitavano in case precedute da villette, con stanzoni..., saloni   , stemmi, armi, cimeli, pianoforti...Baroni, cavalieri, baronesse, signorini conducevano la vita beata...La borghesia cercava di imitare i nobili nel modo di vestire, di vivere.... La conquista dell’amicizia con un nobile era la meta del borghese, il quale, quando riusciva ad ottenerla, non faceva che dire: - mi trovavo con il barone...(non è cambiato proprio niente!), con il sussiego di chi ha raggiunto la più invidiabile delle posizioni... Nel 1920, una nuova frase era sulla bocca di tutti: - Chi  non lavora, non mangia”. La frase era presa a base di una nuova dottrina sociale, proveniente dalla Russia, fondata sul materialismo....Lentini, paese preminentemente popolato da braccianti, era facile ad essere persuaso alla nuova dottrina. Si tenevano comizi in cui il numero dei partecipanti era imponente. Venivano in piazza i propagandisti; tra essi una donna, Maria Giudica, accanitissima sostenitrice della nuova legge sociale...Profetizzava l’uguaglianza delle classi e che tutti sarebbero stati  bene...E, così s’inculcava veleno nell’animo, si esasperava il povero invece di consolarlo, e si incitava all’odio invece che alla sopportazione... In uno scontro con la polizia, una sera caddero due donne, intervenute con falce e roncola nascoste sotto i grandi grembiuloni, che usavano portare sulle gonne....” (Alcuni brani tratti dal libro sig. A.F.). Dopo aver letto il libro, la signora M.C., indignata, inviò una lettera alla sig. A.F. “Gentile signora, nel suo libro lei ha scritto tante .... Dopo tre anni di guerra, trentamila contadini di Lentini e paesi circonvicini disoccupati, dovevano essere consolati secondo i dettami di Gesù che, lei dice, predicava ai ricchi carità e ai poveri pazienza. Quindi secondo lei, i contadini dovevano essere aiutati a sopportare la miseria e a mangiare pane e cipolla, dormire in una catapecchia  assieme  al mulo o all’asino,  mentre i “cavallacci” facevano la bella vita, piuttosto che essere aiutati nei loro sacrosanti diritti di essere umani, magari da Maria Giudice e da altri, che in questa loro missione, proprio in quel periodo avevano tutto da perdere, pur anche la vita, che da guadagnare.... Riguardo all’uccisioe delle due donne nella piazza di Lentini, è falso quel che lei ha scritto nel suo libro, cioè che portavano falce e roncole sotto i grembiuloni (che non avevano), e non fu la polizia a sparare sulla folla. Io allora avevo 15 anni ed ero a Lentini per le vacanze, giacchè studiavo a Catania alle scuole Normali ed ero al Collegio Pio IX in via S. Maddalena. A Lentini abitavo in via C. Alaimo e quella sera d’estate, mentre passeggiavo con altre ragazze, mie amiche, per prendere un poco d’aria nello spiazzo antistante la chiesa della S.S. Trinità, abbiamo visto entrare nella scuola elementare Monastero, comunemente chiamata Badia, molte persone fra le quali numerose donne, spinte dalla curiosità di vedere e di ascoltare Maria Giudice. Anche noi siamo entrate. Sono rimasta affascinata dal coraggio, dalla franchezza e dalla passione delle sue idee. Finito il comizio, Francesco Marino disse ai convenuti di andare a casa ognuno per conto proprio  e  di evitare assembramenti.  Le persone che abitavano nelle vicinanze andarono subito a casa, mentre quelle che abitavano a S. Paolo, sopra la Fiera e dalle parti della Stazione, un folto gruppo, passando dalla piazza, furono aggrediti a colpi di pistola sparati dall’alto dei padroni. Questa è la verità!” (M.C.). Due donne colte, della stessa estrazione sociale, due testimonianze e due modi diversi di vedere dello stesso periodo storico. E mentre l’una considerava Maria Giudice una propagandista rivoluzionaria, l’’altra invece, coraggiosa, combattente per il riscatto dei lavoraori.  Ma cosa successe veramente 78 anni fa? Fu come abbiamo visto nei due scritti, la polizia a sparare su dimostranti, o i reazionari su una folla inerme, per paura della minaccia socialista? Ma furono veramente uccise due donne? Chi erano? Perchè nessuno ne parla? Ancora oggi qualcuno si interroga e interroga per saperne di più, ma come è noto la storia di Lentini si è fermata a quella scritta da Pisano Baudo. La storia socio economica, non solo quella politica, della Lentini dei primi decenni del novecento, che portò a una grande mobilitazione sociale, è infatti sconosciuta soprattutto dai giovani. Qualche giorni fa è venuto a trovarmi un giovane lentinese (consigliato dal prof. Mangiameli) per vedere se fra i documenti di mio padre, in mio possesso, poteva trovare qualcosa che gli servisse per la sua tesi di laurea. Consultando le carte ha esclamato: “Non avevo idea che Lentini avesse avuto una storia così travagliata! Perchè nessuno ne parla?  “Tante risposte si sono affollate alla mia mente, ma poichè potevano sembrare risposte di parte ho taciuto. Volendo ripetere una frase trita e ritrita: “Un Paese deve conoscere il suo passato, senza storia, infatti non c’è futuro”, lancio un appello: Perchè il Comune di Lentini, anzichè finanziare pubblicazioni spesso inutili, non  si fa carico di scrivere la storia moderna della nostra Città, affidandone la stesura ad uno staff di studiosi, in modo che ne venga fuori una storia obiettiva?   Pina Marino Tropiano     
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
INDIZI CONCRETI COLLOCHEREBBERO I LEONTINI FRA I POPOLI DEL MARE
ANCHE L’ANTICA LEONTINI FRA LE CITTA’ MARINARE?
da "La Notizia" di Lentini per gentile concessione del suo direttore Nello La Fata
 
Il paradosso di Braudel. La costruzione delle antiche navi. Le varie tipologie esistenti. Il <<Titanic>> dell’antichità. La flotta Siracusana di Dionisio. Per una politica economica e commerciale via mare
<<... Tra i fiumi, il Lisso, da identificare con l’analogo greco, ed il Carrunchio. Questi fiumi costituivano le vie fluviali at-traverso le quali si svolgevano il commercio, e le comunicazioni con il mare che facevano di Lentini un’importante città marinaresca,  almeno  fino all’epoca medioevale e fino all’interramento, dovuto pro-babilmente ai numerosi ter-remoti...>>.   (“La Sicilia”, 14.7.1998). Abbiamo tratto questo rilevante passaggio da un in-tervento sul quotidiano più letto dell’isola, non firmato, riferentesi a Lentini e titolato <<Il sottosuolo è ricco di antichissimi cunicoli>>. Non siamo nè archeologi nè cultori della storia di Lentini. Conoscere le passate vicissitudini della propria città lo riteniamo, però, un dovere quasi civico. Per noi, quì ed ora, conta poco o niente sapere una cosa che già conoscevamo. Sappiamo, infatti, che Lentini, nel passato, è stata ricca di arterie fluviali navigabili. Quello che ci induce ad una riflessione è, invece, la domanda: fino a che punto i fiumi navigabili vennero sfruttati dai Leontini per le loro co-municazioni commerciali esterne? E fino a che punto possiamo in realtà affermare che Leontini rientri nel novero delle “importanti città marinaresche”? E fino a che punto, posto che questa sia una realtà accettabile, l’antica città abbia fatto fronte al proprio sviluppo economico assecondando e sviluppando una politica com-merciale ed anche militare di tipo marinaro? L’argomento, non privo di fascino, apre le porte ad una analisi contestuale più ampia ed approfondita. Cirino Gula nella sua “Storia di Leontinoi” conforta la tendenza affermando che <<i fiumi sono importanti anche come vie di trasporto ed in questo senso Leontini,  l’unica  colonia primaria lontana dal mare, era ben servita. All’epoca il Teria, identificato col S. Leonardo, era navigabile per un buon tratto e la sua foce doveva costituire un buon approdo per le navi...” In un nostro lavoro su questo stesso periodico abbiamo spiegato come, secondo D. musti, nella suddivisione da Egli proposta delle colonie greche in “colonie agricole” e “a carattere commerciale”, Leontini rientrasse fra le prime. E assume particolare importanza, a questo punto, l’affermazione di Jean Hurè nella sua “Storia della Sicilia” ove dice che “... così le vecchie colonie agrarie diventarono ben presto importanti centri commerciali...” Gli elementi e i presupposti, più che indizi, perché ci si possa persuadere dei leonitin come “popolo del mare” ci sono. In più, concettualmente, giunge il noto paradosso di Braudel espresso in <<Civiltà e imperi del Me-diterraneo nell’Età di Filippo II°>> (Einaudi, 1986). Braudel afferma che nel Mediterraneo quasi tutti i popoli del mare non erano costituiti da gente di mare. Ed è vero, in quanto nelle coste mediterranee non insistevano popoli marinari in senso stretto. Si guardino, come esempio illuminante, Atene, Corinto, Roma od Antiochia. Città che non avevano sbocchi naturali a mare. Potenze, queste, che concertatamente ad una politica commerciale ne adottavano una militare meritandosi a pieno titolo l’appellativo di “popolo del mare”. Le imbarcazioni come erano costituite? Esse consistevano di una chiglia a fasciame lon-gitudinale con giunti a mortasa e la costruzione avveniva attraverso un procedimento produttivo lento e molto costoso. I legni migliori, considerati di ottima qualità, venivano reperiti generalmente il Libano ed in zone particolari del medio Oriente. Ma solo Stati dotati di notevole potenza economica potevano permettersi  flotte degne di questo nome. La stessa Atene nel 411 esaurì le risorse per armare la propriaflotta e potrà far fronte all’emergenza solo oberando i cittadini con tasse onerose ed impopolari. I commerci via mare non parivano, comunque, gran-demente fruttuosi. In ogni caso, giustificavano poco gli sforzi per affrontarli. C. R. Whittaker dà per certo che “Gli scambi e i commerci lungo le coste del Mediterraneo non erano soltanto pericolosi, ma anche poco interessanti dal punto di vista economico... la maggior parte dei commerci si svolgevano su distante brevi e non fruttavano grandi fortune; il costo della costruzione delle imbarcazioni contribuiva a contenere sia le dimensioni delle navi sia il volume degli affari...” In più si doveva far fronte alla crescente ed impunita pirateria. Una costante storica era, inoltre, quella che le città che poggiavano sulle flotte avevano vita breve (l’impero Ateniese durò appena 60 anni). Le navi: la più diffusa è la trireme, specie per il combattimento, cui seguì la polireme. Dionisio di Siracusa costruì una grande flotta, di crica 300 navi, fra quadriremi e quin-queremi. Limpero macedone le settiremi. Seguirono, nell’età ellenistica, le 10 e le 30 per arrivare a quello che possiamo definire il “Titanic”dell’antichità sotto Tolomeo IV Filopatore nel II° secolo in Egitto. Il quale avrebbe fatto costruire una enorme nave di 40 remi, con 400 marinai, 4.000 rematori e 2.850 soldati: quasi 7.000 membri d’equipaggio. Massimamente, ciò non di meno, le navi, specie ad uso commerciale, rimasero di piccole dimensioni. Come dovevamo, verosimilmente, essere quelle dei Leontini che non ci sentiamo pienamente di an-noverare fra i “popoli del mare” se non per una politica di natura esclusivamente commerciale, non militare, e concentrata in un raggio d’azione relativamente limitato, ma inserito nel contesto geopolitico ed economico complessivo. E’ più consono ed appropriato attribuire lo “status” di vero e proprio “popolo del mare” in via esclusiva agli Stati che “operano” sul mare una politica aperta sia di tipo commerciale che militare ovvero l’una o l’altra, ma con aneliti espansionistici. Altrimenti siamo in presenza di semplici fre-quentatori, anche assidui, ma pur sempre frequentatori. Anche se, invero, innesca una certa per-plessità la dimensione com-merciale siciliana intorno al V° e IV° secolo a.c. E’ questa l’epoca dei famosi “Pegasi”, monete corionzie adottate in Sicilia alla stregua di monetazione ufficiale. Contestualmente l’epoca pre-sentava “forti correnti d’espo-sizione verso la Grecia del rifor-nimento granaio siciliano...” per dirla con E. Ercolani Chocchi. Viene difficile pensare alla sola ed esclusiva marina greca. L’ar-cheologia, sui Leontini, in modo decisivo dovrebbe dare le proprie conferme. In ogni caso dice bene Santi Correnti quando asserisce che “Aveva ben ragione il fran-cese Roger Peyrefitte, quando nel 1952 ha affermato che la Sicilia greca è stata il più fulgido centro di civiltà  nel mondo  me-diterraneo; ed il poeta siciliano Salvatore Qua-simodo, premio Nobel 1959, ha giustamente scritto nel 1954 che <<il sangue migliore della Sicilia nutrì la civiltà del tempo di Pericle>>”. Vi vediamo, ben volentieri, anche l’antica Leontini con la sua politica economicae commerciale, sia pur delimitata, e la sua piccola flotta marinaresca.
Riferimenti bibliografici:
* C.R. Whittaker. I popoli del mare. Ed. Laterza 1996.
* C. Gula. Storia di Leontinoi. Dalle origini alla conquista romana. Ed. CUECM 1995.
* J. Hurè. Storia della Sicilia. Ed. B&B. 1997.
* S. Correnti. Breve Storia della Sicilia. Ed. Newton 1994.
* A. Di Mari. La possibile politica economica nella antica Leontini del  IV° sec.a.C.- La  Notizia 1998
* E. Ercolani Chocchi. Un’eco-nomia monetaria. Laterza 1996
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 
GORGIA e le sue opere
di Lentini era il figlio di Carmantide e nipote del famoso medico Erodico e lo ricordiamo come il più notevole rappresentante della antica sofistica dopo Protagora, e, insieme al suo maestroTisia, il creatore dell'arte retorica. Così lo ricorda già Cicerone, come colui che volle: "dichiararsi pronto a rispondere a tutte le domande, che ciascuno volesse fargli". (I, 103; De Oratore, a cura di G. Norcio, UTET, 1976). Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria, una novità anche per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi, una statua d'oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra. Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo pone in contrasto critico con Socrate (447, c): "Ma vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui quale è la virtù propria di quest'arte che egli professa e insegna e in che cosa precisamente consista".  E più avanti (449, a): Socrate - 'Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo chiamarti e che arte è la tua'. Gorgia - 'La mia arte è la retorica'.
E ancora, dove Platone crea il dialogo tra Socrate e Gorgia in modo che questi si contraddica, quasi a rivelare una latente rivalità per l' espressione culturale - confronta con la scheda su Tisia - proveniente da una ex terra colonica che diventa sempre più sede di potenti città, usando pure lo stratagemma di "chiedere" a Gorgia risposte concise, mentre il suo Socrate articola domande molto meglio costruite (454/455):
Socrate - Ti sembra che sapere e credere, ossia 'scienza' e 'opinione', siano la stessa cosa?
Gorgia - No; direi che son cose distinte.
Socrate - E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: 'Gorgia v'è una opi nione falsa e una vera?' tu risponderesti di si, credo.
Gorgia - Di si, certo.
Socrate - Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia - Assolutamente no.
Socrate - E' proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la stessa cosa.
Gorgia - Infatti.
Socrate - Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia - Lo credo bene.
Socrate - Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione: quella che produce opinione senza il sapere, l'altra che produce scienza.
Gorgia - Hai ben ragione.
Socrate - E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e all'ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure l'altra da cui deriva il sapere?
Gorgia - Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate - Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella persua sione che induce all'opinione senza il sapere, e non alla scienza del giusto e dell'ingiusto.
Gorgia - Così è.
Socrate - Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle altre adunanze nulla intorno al giusto e all'ingiusto, ma suscita soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande importanza?
Gorgia - Sarebbe effettivamente impossibile.
(Platone, Gorgia, trad. Vito Stazzone, Ed. APE, Catania, 1944)
Tale dialogo di Platone induce a riflettere: l'autore ambienta l'incontro nel 427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto intorno al 395, dopo cioè l'avvenuta condanna a morte di Socrate; condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del giusto: a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto - che andrebbe letto per intero - è colmo di giusto rancore: "Quando dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche ingiustamente, io rimasi perplesso (...)". L'animo di Gorgia si risentì dello scritto dell' allievo di Socrate che lo vedeva protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori.
 
I lavori di Gorgia, oltre l'Epitafio, sono di tematica mitica: l'Elogio di Elena, La difesa di Palamede, e filosofica: Sul non ente o della natura; l' Olimpico e il Pitico sono andati perduti; del Discorso agli Elei abbiamo ben poco. Tra gli altri suoi viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell'arte oratoria come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall'oratore. Nell'Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a parola può determinare la modellatura dell'animo del singolo, come del carattere della folla. La parola può modificare l'anima di chi la ode, e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze (concezione di cui è evidente la parentela col relativismo gnoseologico di Protagora). E le due opere prima citate, dedicate a Elena e Palamede, sono saggi tipici di tale abilità retorica, nata con Gorgia. Nell'opera Sul non ente Gorgia sostiene tre tesi: nulla esiste, se esiste non è conoscibile dall' uomo, se è conoscibile non la si può comunicare ad alcuno, specialmente col solo uso della parola. "La critica più recente ha chiarito, sopratutto mediante l'analisi comparativa delle due esposizioni che ci restano dello scritto gorgiano (quella di Sesto Empirico e quella dello Pseudo-Aristotele), come l'esposizione di Sesto, da cui deriva l'immagine del Gorgia effettivamente scettico e nichilista, sia in realtà deformata dalla sua intenzione di dossografo dello scetticismo, e debba quindi cedere il passo all'esposizione dello Pseudo-Aristotele, nella quale l'intenzione di ironia antieleatica dello scritto di Gorgia appare concretamente connessa al suo relativismo sofistico" (Dizionario Enciclopedico Italiano, ed. Treccani).
Rileggiamo la conclusione dell'Elogio di Elena:
"Così con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama secondo la premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere l'ingiustizia di un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma perché fosse a me di passatempo". (trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).
Sul valore che Gorgia attribuisce al passatempo, allo scherzo, abbiamo una nota di Aristotele, inquadrata con altre e che forse sono traccia di una seconda trattazione sulla Poetica, a noi non pervenuta:
"Su ciò che fa ridere, dal momento che esso sembra avere una sua utilità nei dibattiti, e che Gorgia ha detto, e ha detto bene, che occorre distruggere la serietà degli avversari con il riso e il riso con la serietà, quante siano le forme del comico si è detto negli scritti sulla poetica: di queste l'una si adatta all'uomo libero, l'altra no, e si deve scegliere quel che meglio si adatta" (BUR, app.A).
La lezione di Gorgia è tra quelle immortali dei classici, ed in generale è tra le più alte lezioni dell'ingegno umano. Per noi immortale vuol dire davvero rileggere Gorgia con attenzione; pare oggi un esercizio nuovo l'ascoltare, a saper meglio valutare la enorme mole di informazioni - che in molti hanno interesse a che venga intesa tutta come cultura - che ci circonda.
Ricordiamo un aneddoto grazioso che si narra a proposito del famoso viaggio di Gorgia in Atene. Lì egli arringò a lungo la folla, facendo risaltare la differenza di temperamento che sussisteva tra gli abitanti della Sicilia e della Magna Grecia, e tutti gli altri, definiti barbari. I barbari, diceva Gorgia, vivono nella discordia perché vivono tra loro senza armonia. L'armonia sarebbe stata, secondo l'oratore, il segno distintivo della superiorità greca sui nemici, e ciò avrebbe accresciuto la stima ed il timore dei barbari nei confronti dei greci. A questo punto uno della folla, un anonimo saccente, volle appuntare a Gorgia una annotazione sulla sua situazione familiare.
"Noi siamo in tanti, Gorgia", disse l'uomo, "e ci suggerisci di andare d'accordo e in armonia; tutti sanno però che a casa tua siete in tre, tu tua moglie ed il servo, e litigate da mane a sera. Non credi che avrebbero più effetto i tuoi discorsi se si sapesse che voi tre non recate molestia ai vicini?"
Frammento:
da ORAZIONE OLIMPICA
Degni dell'ammirazione universale, o Greci (...). Ed alla nostra gara
sono necessarie due virtù: audacia e sapienza, per svelare l'enigma;
perché la parola come il bando dell'araldo in Olimpia chiama chi si
offre, ma incorona chi riesce.
(Clemente Aless.;in I Presocratici, testimonianze e frammenti; Laterza; 1994)
Gorgia fu tra i maestri di Antistene (con Socrate); questi poi fondò con altri la scuola detta cinica.
 
dall' EPITAFIO
Che cosa non avevano questi uomini valorosi, di quello che
uomini valorosi devono avere? E che cosa avevano, di quel che
non devono avere? Possa io essere in grado di dire quello che
voglio, ma voglia io dire quello che devo, evitando la nemesi
divina, sfuggendo all'invidia umana. Costoro possedevano di
divino il valore, di umano la mortalità, spesso preferendo la
generosa equità al diritto spietato, spesso alla pedanteria
della legge la dirittura della ragione, questa ritenendo essere
divinissima e universalissima legge: dire e tacere, fare e
tralasciare quel che è necessario quando è necessario,
e due cose esercitando sopratutto di quelle che si devono, senno e
ardimento, quello per deliberare, questo per eseguire; difensori
degli ingiustamente sfortunati, punitori degli ingiustamente
fortunati, decisi di fronte all'utile, nobili di fronte al
decoro, con la prudenza del senno dominanti l'imprudenza
dell' ardimento, tracotanti coi tracotanti, saggi coi saggi, impavidi
cogli impavidi, momenti nei momenti tremendi.
A testimonianza di ciò levarono trofei sui nemici, dono votivo
a Zeus, monumento a se stessi, non inesperti né di innato valore,
né di legittimi amori, né di lotta in armi, né di pace,
amanti del bello, reverenti verso gli dei per giustizia, pii verso i
genitori per devozione, giusti verso i concittadini per equità,
rispettosi verso gli amici per fedeltà. Sicché, morti loro,
non è morto con loro il rimpianto: ma di loro, non più vivi, esso
vive immortale nella nostra spoglia mortale.
(Le più belle pagine di lett. greca classica, C.Coppola,Nuova Accademia Ed.)
 
ELOGIO DI ELENA
E' decoro allo stato una balda gioventù; al corpo, bellezza;
all'animo, sapienza; all'azione, virtù; alla parola, verità.
Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola
ed opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode
sia degno; ma sull'indegno, riversar onta; poiché è pari
colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodare
le riprovevoli. E' invece dovere dell'uomo, sia dire rettamente
ciò che si addice, sia confutare (giustamente) i detrattori di
Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la
testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo
delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il
discorso secondo un certo metodo logico, lei così diffamata
liberar dall'accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e
svelata la verità, far cessare l'ignoranza.
(I Presocratici; op. cit.).
Tutti sanno che la donna di cui parlo era, per nascita e per
stirpe, prima tra i primi, e uomini e donne: sua madre fu Leda,
il padre vero un dio e quello putativo un uomo, Zeus e Tindaro
(dei quali il primo fu creduto padre perché lo era, l'altro fu
giudicato padre perché asseriva di esserlo), che erano l'uno il
più potente tra gli uomini, l'altro il signore di tutte le cose.
Nata da tali genitori ebbe bellezza divina, che non rimase
nascosta: e grande desiderio di amore suscitò in moltissimi, e
con la sua persona attrasse eroi gloriosi, dei quali alcuni vantavano
grande ricchezza, altri antica nobiltà di nascita, altri
vigoria di corpo, altri forza di sapienza acquisita. Tutti vennero
a lei mossi da ambizioso amore e da invincibile desiderio
di gloria.
Non dirò chi e perché e come, prendendo
Elena, appagò il suo desiderio d'amore, ché, dicendo
a coloro che sanno quel che già sanno, si è sì creduti,
ma non si porta diletto: ma tralasciando di parlare di quel tempo,
darò inizio al mio discorso ed esporrò le cause
per cui la partenza di Elena per Troia non poté non avvenire.
Essa fece quello che fece o pel cieco volere della fortuna e il consaputo volere
degli dei e un decreto del fato, o perché rapita con la violenza,
o perché persuasa dalle parole, o perché presa d'amore.
Se lo fece per la prima ragione, bisogna accusare chi ne fu la causa,
ché la previdenza umana non può contrastare il volere del dio.
E' legge di natura che il più forte non sia impedito dal debole ma il
debole sia dominato e trascinato dal forte, che il forte guidi e il debole segua:
ora il dio è superiore all'uomo e per forza e per sapienza e per tutto.
E la divinità supera in forza ed in saggezza ed anche nel rimanente il mortale.
Se responsabilità si adducesse al Fato o al dio, Elena va discolpata.
(trad. Maddalena, La lett. greca, Laterza, 1960, Bari)
Se fu rapita con la forza e subì violenza e fu oltraggiata
ingiustamente, è chiaro che ha colpa chi la rapì in quanto usò
violenza, mentre essa che fu rapita, in quanto subì violenza, fu
sventurata. Merita costui che, da barbaro, ardì barbara impresa;
merita verbale punizione, ma anche legalmente e di fatto. Con
il verbo gli giunge l'accusa, con legalità la infamia, e con i
fatti la pena. Ma chi subì la violenza e della patria venne privata,
e dei suoi cari spogliata, non deve essere compianta in
vece che diffamata? Quello compì il male, questa lo subì.
Giusto è per il primo il biasimo, giusta per la seconda
la compassione.
Se furono indi parole a convincerla e ingabbiarle l'animo
suo, pur semplice è difenderla e far svanire ogni accusa.
Il discorso, o parola, (logos) è un gigante piccolissimo,
un sovrano che compiere sa cose divine, come annullare i timori
ed ispirare gioia o lacrimevole pietà.
E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perchè
bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie
forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi
l'ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione
che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e
l'anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento,
a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere.
Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati incantesimi
di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena.
Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell'anima,
la potenza dell'incanto, questa la blandisce e persuade e trascina
col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti,
consistenti in errori dell'animo ed in inganni della mente. E
quanti, a quanti, quante cose fecero credere e fanno credere,
foggiando un finto discorso!
Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo,
delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale
efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual'è invece per quelli,
che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare
sul presente, né a divinare il futuro; sicchè nel più dei casi,
i più offrono consigliera all'anima l'impressione del momento.
La quale impressione, per esser fallace ed incerta, in fallaci
ed incerte fortune implica chi se ne serve. Qual motivo ora impedisce
di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di
parole, e così poco di sua volontà, come se fosse stata rapita
con violenza? Così si constaterebbe l'imperio della persuasione,
la quale, pur non avendo l'apparenza dell'ineluttabilità, ne ha
tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una
mente, costringe la mente persuasa, e a credere nei detti,
e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha
esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa,
in quanto costretta dalla forza della parola, a torto viene diffamata.
E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce
anche a dare all'anima l'impronta che vuole, bisogna apprendere
anzitutto i ragionamenti degli (scrutatori del cielo), i quali
sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un'
altra, fanno apparire agli occhi della mente l'incredibile e l'inconcepibile;
in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità,
nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma
scritto con arte, sul dilettare e persuadere la folla; in secondo
luogo le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela pure con che
rapidità l'intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell'opinione.
C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima
lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmachi e la natura del
corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori,
e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così
anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri
paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche
persuasione perversa, avvelenano l'anima e la stregano.
Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu
colpevole, ma sventurata.
(I Presocratici, op. cit.).
Passo a trattare della quarta causa. Se fu l'amore a fare
tutto questo, facilmente essa sfuggirà all'accusa della colpa che
le si attribuisce. Le cose che vediamo non hanno la natura che
vogliamo, ma quella che loro è toccata, e attraverso la vista
l' anima è variamente sollecitata. Così se vediamo nemici armarsi
contro nemici con una armatura di bronzo e di ferro (...) la
vista si turba, e turba l'anima, in modo che spesso fuggono
entrambe atterrite dal pericolo futuro come se fosse presente,
perché la consuetudine d'obbedire alla legge è come bandita
dalla paura suscitata dalla vista; questa infatti, sopraggiungendo,
fa dimenticare il bello stabilito dalla legge e il bene che s'ottiene
con la vittoria (...).
Così è naturale che la vista ora s'attristi e ora s'allegri.
Insomma molte sono le cose che suscitano in molti amore e desiderio
di molte cose. Se dunque gli occhi di Elena, provando
diletto dinanzi alla figura di Alessandro, ispirarono all'anima
desiderio e travaglio d'amore, che c'è da meravigliarsi? E se
l'amore, ch'è dio, ha potenza divina, come potrebbe respingerlo
od opporglisi uno che sia inferiore? Che se invece è
infermità
dell'uomo ed errore dell'anima, non si deve biasimare come se
fosse una colpa, ma considerarlo una sventura; venne come venne,
per insidia del caso, non per deliberazione della mente; venne
per necessità d'amore e non per artifici.
(trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).
Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di
Alessandro, ispirò all'anima fervore e zelo d'amore, qual
meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dei la divina
potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli?
e se poi è un'infermità umana e una cecità della mente,
non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura;
venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni
della mente; e per ineluttabilità d'amore, non per artificiosi raggiri.
(I Presocratici, Laterza, 1994)
Come dunque si può stimare giusto il biasimo di cui è vittima
Elena, che, se ha fatto quello che ha fatto perché innamorata o
persuasa dalle parole o rapita con la forza o costretta dagli dei,
è in ogni caso innocente?
Così con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama
secondo la premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere
l'ingiustizia di un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo
discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma
perché fosse a me di passatempo.
(trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).
TORNA AL SOMMARIO 
 
 
GORGIA, maestro di stile ma non di vera arte

Egli fu l'erede dei retori della prima meta' del V sec. e, secondo la tradizione, fu discepolo di Empedocle. Nacque a Leontini (Lentini) ed ebbe vita lunghissima. Di lui sappiamo che ando' ad Atene nel 427 a.C., quando era ormai famoso ed avanti negli anni, e che l'efficacia della sua parola conquisto' gli Ateniesi tanto da instaurare una tradizione oratoria che rimase fondamentale nella cultura della citta' e che influi' anche su Pericle.

La formazione di base di Gorgia fu filosofica e su di essa si innesta la sua arte oratoria, che e' il prodotto di una personalita' di grande rilievo. Delle sue opere filosofiche non ci e' giunto nulla, ma di una di esse, intitolata "Sul non essere o Sulla natura", ci sono giunte testimonianze indirette, tra cui quella del filosofo Platone. Gorgia, portando alle estreme conseguenze l'agnosticismo del filosofo Protagora, si proponeva di dimostrare che nulla esiste; anche se esiste, non e' conoscibile per l'uomo; anche se e' conoscibile, non e' comunicabile ad alcuno. L'opera, che si e' sospettato avesse un intento scherzoso, in realta', sotto l'apparenza del paradosso, evidenziava la debolezza della filosofia presocratica, che non era riuscita a dimostrare i fondamenti dell'esistenza, vista come immutabile e conoscibile, al di la' dell'apparenza che la mostra in continuo cambiamento.

In conseguenza di questa sua teoria filosofica, egli sosteneva l'eccellenza dell'arte della retorica, che usa la forza della persuasione per ottenere l'assenso; essa non avrebbe motivo di esistere in presenza di una realta' obiettiva e conoscibile, perche' si dovrebbe limitare a prendere atto di questa realta '.

Le sue opere piu' significative erano, pero', le orazioni; ci sono giunte due sue opere sull'arte della retorica in armonia con le sue teorie filosofiche: l'"Encomio di Elena" e la "Difesa di Palamede". Nella prima Gorgia dimostra che di tutte le motivazioni che sono alla base dell'abbandono del marito e della sua casa da parte di Elena, moglie adultera di Menelao, nessuna e' tale da configurare una sua colpa. Che sia stato il fato o la volonta' degli dei a spingerla a fuggire, o che sia stato Paride a rapirla con la violenza o a persuaderla con le sue abili parole, di certo e' facile dimostrare l'assenza di colpa dell'eroina omerica. Il ragionamento (logos) vince sull'opinione (doxa), essendo questa fondata su una realta' ingannevole, incerta ed inattingibile.

Nella "Difesa di Palamede" l'eroe greco e' accusato di tradimento ed egli si sforza di dimostrare che, anche se lo avesse voluto, non avrebbe potuto compiere l'azione di cui e' accusato, e che non lo avrebbe voluto, anche se lo avesse potuto. Palamede, pero', riconosce l'impossibilita' di giungere alla verita', perche' il logos riesce a smontare la doxa, ma non e' in suo potere attingere la verita'.

Queste opere, pero', ci parlano piu' del pensiero filosofico di Gorgia, che delle sue idee in fatto di retorica, sulla quale Gorgia pare avesse composto un trattato, che non ci e' giunto.
Ci restano, inoltre, frammenti piuttosto esigui, o soltanto i titoli, di alcune sue orazioni: il "Discorso Olimpico", tenuto per raccomandare la concordia alle citta' greche; il "Discorso Pitico"; l'"Encomio di Elide"; l'"Epitafio" per i caduti ateniesi nella guerra del Peloponneso. Da essi, pero', non si attingono elementi significativi per delineare la personalita' oratoria di Gorgia.

Egli, sostenitore della verosimiglianza dell'arte, fu maestro nel suscitare forti emozioni servendosi della parola, delle cui eccezionali potenzialita' egli fu convinto assertore, soprattutto quando parla della tragedia, da lui definita "un inganno in cui chi inganna e' piu' giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare e' piu' sapiente di chi non si lascia ingannare".

Il suo stile ha una struttura formale estremamente sofisticata, che sovrasta il contenuto e che si esprime in corrispondenze estremamente equilibrate, sia sintattiche che ritmiche.
Il dialetto usato e' l'attico illustre, preciso nella sintassi e ricercato nel lessico. Il risultato e' estremamente armonioso, ma freddo e uniforme, sicche' Gorgia rimane come maestro di stile, ma non di vera arte.
 TORNA AL SOMMARIO 
 
 S E G U E 
 
                               
 
copyright, privacy e termini d'uso