Addolorata

 

Era passato un anno, o giù di lì, da quel giorno che Addolorata non poteva dimenticare, e un anno certe volte è poco o tanto per il tempo che gli uomini dispongono, per la cadenza di taluni avvenimenti e per il modo e il bisogno d’amministrare le cose di questo mondo, talora con l’arbitrario tornaconto del proprio interesse personale.

E un anno era davvero poco per la prima ricorrenza della morte prematura del povero marito; uomo assai probo e moderato quel Gaetano suo che s’era spento senza una ragione vera, che mai aveva patito d’alcun male seppure poco importante, e raramente si era lamentato di qualche dolorino passeggero. Tuttavia, si sa che il vaso incrinato dura più di quello buono, e Addolorata per non smentire un tal pensiero, nonostante gli acciacchi che da sempre contava e si piangeva addosso, alcuni veri ed altri soltanto smaniati, era sopravvissuta a quell’uomo pieno di salute. Oltre tutto era troppo giovane, povera donna, per rimanere da sola a quarant’anni con una vita che poteva offrirle ancora grandi cose. Però era una vita oramai segnata, in un certo qual modo spenta, in declino, come per dire che a quel punto lì era già finita.

D’altra parte scoprirsi vedova a quell’età e per giunta senza figli è cosa assai spiacevole se non si ha nessuno a questo mondo su cui poter contare; e lei si era troppo congiunta alla cattiva sorte e alla malinconia delle lunghe serate solitarie e smorte che l’avevano sorpresa all’improvviso, ancora prima che potesse rendersi conto del suo stato di lutto stretto.

Gaetano, in verità, si era comportato sempre da buon marito, e lei aveva poco da dolersi in quella direzione; attento, devoto, persino sottomesso e premuroso fino alla noia, ma non fesso come si potrebbe figurare di certi uomini che alla pari concordano per la propria indole addomesticata. Eppure, l’aveva accontentata in ogni cosa la sua donna, ma proprio in tutto, e ciò che lei aveva chiesto soltanto con un cenno indefinito, ancora prima che affidasse il desiderio alle parole, ella già l’aveva ottenuto ciò che voleva, senza menare invano l’affanno e la concitazione di quel che può bramare una moglie, peraltro virtuosa, assennata e alquanto equilibrata. E quando ella voleva, poteva uscire ed entrare in piena libertà dalla bella casa che governava da vera signora; senza dir nulla, senza pretesti o scuse, che non ce n’eran di bisogno per quel compagno così cortese e buono che comprendeva appieno le smanie, gli slanci e le inquietudini della giovine consorte.

Purtroppo, erano più di quindici gli anni che differivano tra loro, e il tempo che maggiormente li separava era davvero  soverchiante, molti se ci si pensa bene, forse troppi per non gravare sui limiti e le esperienze di due generazioni già parecchio distanti per altri impicci.

Gaetano aveva conosciuto la guerra, gli stenti, la fame, l’arrangiarsi ad ogni costo, mentre Addolorata era nata in un periodo di splendore che rifiutava qualsiasi legame con l’Italia cupa e impoverita del conflitto e del dopo guerra.

E il modo d’affrontare la vita, i pensieri comuni, le speranze, le ansie, i desideri, gli svaghi, erano un po’ diversi fra i due, talvolta addirittura contrastanti, e certe volte nettamente ostili, tanto da provocare facili screzi che, se pur duravano poco e si appianavano all’istante, lo dovevano soltanto all’inesauribile indulgenza che lui teneva in serbo per ogni trista occasione che potesse coglierli di sorpresa a causa di quei malanimi.

Gaetano era certamente più quieto della moglie, forse per natura, o forse per quegli anni in più che non poteva nascondere; e il suo modo di fare era semplicemente più riflessivo e misurato, tanto che ad un confronto immediato con la sua giovane consorte appariva quasi stanco di cimentarsi con la continuità dell’esistenza che lo sosteneva: una vita fin troppo normale e terribilmente impietrita la sua.

Addolorata, al contrario, con la esuberante vivacità che teneva, raffigurava l’esatto contrario delle numerose quiescenze carezzate dal marito. Ma, l’esubero delle passioni giovanili che ella aveva coltivato abbastanza bene e con impegno, col tempo le erano scemate fin quasi a dissolversi, non senza polemiche insurrezioni, giacché proprio l’impeto dei suoi sentimenti avevano cozzato, rovinosamente, contro l’incontenibile normalità d’adulto che legava il marito ad un modello umano tipico della generazione cui apparteneva. Dunque, diversità ce n’eran tante tra i due, forse più degli anni che concretamente li dividevano, e col tempo le divergenze s’erano accresciute in tal misura che nell’intimità del letto coniugale potevano esser tutto, fuorché amanti. Probabilmente nemmeno marito e moglie, forse cugini, o magari parenti alla lontana, ma non fratelli come si potrebbe pensare, questo proprio no! E quando per i nostri sposi era nottata di “baldoria”, il sabato frequentemente perchè all’indomani avrebbero dormito qualche oretta in più, lei si sfilava una sola gamba dalle mutandine di cotone bianco e sopra rimaneva coperta col petto riparato dal pigiama e da una maglia molto pesante. Si metteva supina sopra il letto a due piazze con gli occhi al cielo e le mani stese lungo il corpo, come se dovesse affrontare un atroce patimento: allargava le gambe di quel tanto, appena, che bastasse a Gaetano per cavarne un irrinunciabile varco favorevole all’ardua prova dell’amplesso coniugale.

Il marito non di meno, neanche una gamba sfilava dagli slip e si contentava dell’apposita fessura che distingue quell’indumento per mettere fuori l’uccellino che pian pianino doveva destarsi e cinguettare.

Interamente nudi non lo erano stati mai, solamente per caso e a piccole zone avevano conosciuto le opposte nudità e, in ogni caso, non proprio tutte perché non osavano quel bisogno di indagare le scabrosità dei loro corpi senza veli, immagini che potevano mettere in testa solo cattivi pensieri, o intenzioni parecchio scostumate.

Poi, finito l’obbligo, o il supplizio che dir si voglia, ognuno ritornava a rivestirsi di quel poco che si eran tolti di dosso, e compostamente ritornavano a rigirarsi sul consueto fianco preposto per dormire: schiena contro schiena, nella loro consueta posizione, tanto per mantenere una certa coerenza con la costumanza che li accomunava e non rischiare di scambiarsi il greve respiro della notte.

Addolorata sottostava apaticamente al “turno” dell’amore coniugale che peraltro avevano concertato insieme a tavolino, disponendo di comune accordo regole e schemi per il controllo della loro domata sensualità.

Addolorata, però, lavorando di fantasia, per tutte quelli notti di voluttà decideva che al posto del suo Gaetano ci sarebbe stato un uomo speciale, eletto direttamente dal suo cuore, e spesso il ruolo del marito veniva usurpato da un uomo che in una realtà parallela esisteva veramente:  un attore del piccolo schermo. Nondimeno era un bell’uomo colui che idealmente avrebbe fatto le veci del marito: alto, prestante, disinvolto. Uno che la eccitava soltanto a mirarlo come si muoveva con tanta sicurezza dentro lo spazio angusto e prodigioso della televisione. E le procurava emozioni vere quella sua sregolata fantasia e, comunque, le dava il coraggio della sopportazione.

Preferiva così a far l’amore, nascondendosi il volto con le mani e sospirando vaghe paroline appassionate all’uomo che in teoria la possedeva; e purtroppo, qualche volta, senza volerlo, nel punto cruciale dell’abnegazione le sfuggiva un nome col fiato grosso e la voce sensuale: Tutù ah…, e Tutù era il nome d’arte di quel personaggio che signoreggiava in una tivù locale.

Gaetano, poverino, non ci faceva caso agli incomprensibili barbugli della moglie, non poteva badare ad altro quando faceva il proprio dovere di campione, che ogni pensiero strano gli avrebbe turbato la mente, la concentrazione, e avrebbe arrischiato la buona riuscita della propria prestazione. Nel suo far di maschio egli era quasi succube del rendimento sessuale e il suo corpo lo muoveva in un silenzio di estremo riguardo per l’alto impiego che doveva assolvere e, purtroppo, vibrava di quel tanto per dirsi appena appena vivo, senza mai strafare, con l’unico,  vero desiderio di poter mettere un punto in quel fraseggio povero e banale che mai si sarebbe potuto scambiare per amore.

Finalmente, dopo, giungeva la liberazione, ed era il solito rito di rivestirsi in fretta sotto le lenzuola, silenziosamente. Dovevano raccogliere in fretta quelle poche vesti smesse e sistemate, poco prima, là vicino con attenzione, a portata di mano per non perder tempo a ricomporsi con una precisione esagerata e davvero innaturale. L’uomo rimaneva affranto dopo l’immane strapazzo del corpo intero e della mente ad esso congiunta congiunta, e il vero sollievo che li accoglieva entrambi alquanto felici, raggianti era quello di potersi addormentare senza pensieri, che un'altra settimana ci voleva ancora per quello strazio che avevano imbastito insieme, tuttavia convinti di vivere in un’assoluta normalità matrimoniale.

Nonostante tutto si erano abituati a sopravvivere in compagnia l’uno dell’altro, senza scatenare troppi conflitti, magari sopportandosi a vicenda, ma solo per amore del quieto vivere e, soprattutto, per il giudizio della gente che in certi posti conta ancora più dell’insofferenza di una vita da passare insieme ed è capace di saldare legami davvero inesistenti. Un giorno, forse, e per un giorno solamente, Gaetano e Addolorata si erano pure amati, ma era successo tanto tempo addietro e per un’emozione d’amore poco importante. Di sicuro poi, si era trattato di un sentimento legato più alle consuetudini e addestrato al solo scopo di stare uniti ad ogni costo e di tirare avanti, lasciando agli altri il compito di penare per quell’affanno del cuore che è l’amore. A loro due bastava poco per continuare a campare e respirare senza l’aria fresca e, tuttavia, perniciosa che può dare la persona amata.

Cosa poteva voler dire soffrire d’amore, di passione, di turbamenti, quando per loro due bastavano soltanto i denari e la salute per sentirsi migliori? E i soldi prima di tutto non dovevano mancare: il pane, la salute, tutto poteva scarseggiare, ma i soldi no! Con i quattrini potevano comprarsi tutto ciò che volevano, persino la salvezza dell’anima, che ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a vendergli pure quella. E in questi pensieri che erano i loro pensieri migliori e in certe opinioni di comodo capaci d’accoglierli entrambi, le due generazioni non si opponevano più, anzi, si incontravano, si intrattenevano e si completavano con estremo interesse. Ed ogni mese, il ventisette esattamente, i loro stipendi di insegnati elementari andavano ad ammucchiarsi al grosso gruzzolo che avevano costruito insieme, mese dopo mese d’amore e d'accordo.

Gaetano e Addolorata erano maestri di ruolo nella scuola elementare del comune. Una scuola molto importante, delle migliori, ch’era ospitata nel grande convento dei frati minori. Quando i monaci se ne dovettero andare, il monastero fu ceduto all’amministrazione comunale che lo dovette approntare d’urgenza a caserma per le truppe dei crucchi oppressori.

In quell’abbazia, tra le mura spesse otto palmi e i corridoi che sembravano interminabili budella senza sfogo, Addolorata e Gaetano si erano incontrati per caso, e da quel primo incontro aveva avuto inizio la loro storia intrisa, semplicemente, di un intensissimo e transitorio ardore irrazionale.

La prima volta, quasi scontrandosi, si erano semplicemente parlati. In quell’aria immobile e ammuffita, avevano annusato qualcosa di nuovo e di diverso, e ancora il rischio nel quale poi erano incappati. E il cimento, o il danno, sebbene Gaetano e Addolorata erano innegabilmente più giovani, in tutte quelle cose dettate dalla passione erano pericoli davvero reali per quei tempi, tanto che un bel giorno si trovarono soli in quel sotterra semiscuro, abbracciati nella desolata intimità di una cripta che stava in mezzo ad un “viscere” tenebroso, all’apparenza senza fine né principio alcuno, come se il luogo godesse di quell’unicità assoluta riservata all’iperbolei spazi del sempiterno empireo.

Ma, ciò che a loro due interessava veramente, non era l’estasi antica e seducente del rapimento amoroso, bensì quell’ombra compiuta e complice che si legava magnificamente al luogo solitario del vecchio monastero, e molto bene si prestava a celare il loro audace ardore che li aveva colti appartati e stranamente risoluti.

Fu così che dopo un primo bacio casto e zeppo di pudore, i loro animi s’accesero all’istante di una vampata luminosa e ardente che li avvolse come una torcia al vento che di qua e di là spande le sue faville e i propri bagliori, e la fosca strada schiude al povero viandante.

Si avvinghiarono stretti come due provetti amanti, già addestrati nei congegni dell’amore, e tutto avvenne con un tale slancio irrefrenabile e rabbioso che neanche Humphry Bogart  nei suoi film avrebbe saputo fare di meglio.

Le loro lingue incominciarono a insinuarsi come serpenti tra le labbra serrate, ed esordivano sciabolando dentro l’oscurità angosciosa di quelle bocche smaniose come se cercassero luoghi inesplorati e proibiti, dove avrebbero trovato maggiore soddisfazione per tutti gli strani impulsi che sconvolgevano i loro cuori e le loro menti. Ci volle poco, allora, per sciogliersi insieme in un feroce gioco d’amore, proprio così, un gioco brutale e disumano, quasi selvaggio. Questo fu il loro primo incontro!

E dal sonno della ragione poi, insieme, dovettero svegliarsi, ed era come se fossero stati tenuti in ostaggio da quel luogo austero che li aveva accolti e un po’ li aveva tenuti in soggezione, intanto che li faceva sentire sempre più temerari per quella straordinaria trasgressione che tendeva a rintuzzare la loro temperanza, o probabilmente per l’oblio della mente giudiziosa, fatto sta che i due goffi amanti per quella volta si amarono veramente e senza pregiudizi. Ma in quel vecchio convento, dove la vastità degli spazi e l’inestinguibile solitudine avevano sempre abbondato e, nondimeno, ne erano stati meri padroni, il caso volle che proprio in quel momento e in quel luogo assai remoto, ci si trovasse pure un’altra anima sperduta, una loro collega rigorosa e molto puritana che però, senza tanti scrupoli cercava un posticino più tranquillo per fare la pipì. E la gente è fatta così: è strana, è bizzarra, è contorta, tanto che la virtuosa educatrice, signorina, nonostante l’età piuttosto avanzata, per non farsi notare  per i bagni del chiostro, ch’era cosa assai disdicevole per l’alta qualità morale che la distingueva, preferiva fare i propri bisogni dove le capitava, l’importante era trovarsi abbastanza appartata e lontana dai propri simili che, vedendola, potevano infamarla.

In ogni modo, quando il diavolo ci mette lo zampino è proprio vero che c’è poco da fare, e con le contrarietà sempre ben disposte ad avvelenare la vita, le cose più banali degli uomini diventano terribilmente complicate. La pettegola sozzona che assistette alle effusioni dei due amanti occasionali, dopo riferì con scrupolo ai quattro venti ciò che aveva visto nei seminterrati dell’abbazia, ovviamente omettendo di dire, o forse dimentica, di cosa ci facesse lei in quel posto separato dal resto del  mondo.

E’ d’obbligo ricordare che talvolta centra poco il destino nelle circostanze umane che possono mutare o mantenere indipendentemente il loro stato di equilibrio. Probabilmente, pensandoci un po’ ai pro e ai contro delle occasioni che noi stessi creiamo, potremmo porre un rimedio più o meno buono agli eventi che appaiono imponderabili. Tutto questo è risaputo e magari, pensandoci prima si potrebbero prevenire certi eventi, ma stare con le mani in mano non è fatalità, ma solo pigrizia, o svogliatezza, o torpidezza, tutt’altra cosa è rifugiarsi poi nell’inevitabilità.

E in quell’unica occasione della loro vita, Gaetano e Addolorata si erano abbandonati alla smania dei sensi e avevano messo da parte le inibizioni che abitualmente avevano schermato le loro esistenze. Avevano smarrito il buon senso che in certe situazioni rende gli uomini quasi invulnerabili, e si trovarono lì, colpevoli del loro desiderio e strasicuri di essere ben nascosti agli occhi giudiziosi del mondo intero.

Addolorata si era spogliata e aveva abbandonato i propri vestiti e la biancheria intima dove prima capitava. Sotto l’impulso dell’eccitazione  le sue cose si erano spartite qua e là, dove non avrebbe più potuto trovarle senza uno spiraglio di luce che la potesse aiutare.

Gaetano aveva tenuto addosso la sola canottiera bianca, e nella penombra della cripta sembrava il fantasma di un guerriero, o soltanto la smagliante corazza di un antico cavaliere che dondolava solitaria e scarna in un cantuccio della vecchia badia.

In quell’angolo sperso, che pareva così distante dal mondo quel giorno si erano amati per davvero, almeno fino a quando la vecchia puritana molesta, ben nascosta dietro un cippo d’alabastro e con la vescica straripante, fece sfuggire un lungo gemito incontrollato e alquanto sconveniente. Sia bene inteso, non che la vecchia zitellona avvisasse sopite smanie soffocate dalla sua castità, ma alla vista di quei culi bianchi che si dimenavano insolentemente nell’inviolabile oscurità del luogo sconsacrato, quasi spalmandolo d’infamia, o soltanto a sentire i sospiri lamentosi che brutalmente le frusciavano dentro le orecchie, si sentì offesa dalla turpitudine e dall’empietà di quei due che avevano osato oltraggiare la virtuosa religiosità di quel convento. E lei stessa si sentiva violata, lei che si sarebbe indignata comunque e per cose molto più caste e riguardose.

La vecchia puritana, a dire il vero, era già là da un pezzo, ben celata dal buio e attenta a non fare il minimo rumore, e non per compiacersi della scenetta oscena di quell’intreccio umano, ma solo per raccogliere più fatti e più particolari dall’inaspettata situazione che le capitava in quel momento. Dopo, poteva raccontarlo in giro ciò che aveva visto e udito; e in ogni dove e con chi le sarebbe capitato a tiro avrebbe avuto dettagli chiari e rifiniture che non avrebbero lasciato altro da considerare se non il vituperio e la vergogna dell’umana gente. Invece, di fronte a tanto scempio, sin troppo lesivo per il suo costumatissimo decoro, involontariamente lasciò sfogare un sonoro singulto, quasi che lo stomaco contratto dalla lunga attesa clandestina avesse compreso da solo ciò che si era persa nella sua vita trascorsa tutta senza rimpianti.

Un attimo di stupore provocò immediatamente il totale smarrimento di quelle tre creature strette dall’oscurità e nei sotterranei del convento calò un silenzio ancora più denso, più rinforzato e greve di una pronta e comune disperazione. Si sentirono come perduti, confusi, sconfitti, quasi congiunti da un destino malevolo e sconcertante. Ognuno tentò di sprofondare ancora di più nelle tenebre angosciose che tutto avvolgeva e velava, e tutto schiariva alla peccaminosa volontà di quelle anime ree.

Si erano immaginati ben protetti e al sicuro da qualsiasi sorpresa, ma per coloro che furono scoperti e per chi scoprì soltanto la propria presenza, cambiava veramente poco, il fatto era che tutti si trovavano là clandestinamente, ed era perfettamente inutile a quel punto stare a sorprendersi ancora e agitarsi senza alcun criterio.

Gaetano si distese lungo lungo a terra, dietro quel muro d’angolo che un poco l’aveva serbato alla vista della zitellona. Addolorata, invece, si rannicchiò dove si trovava, proprio accanto ad una piccola teca incastonata nel muro che conteneva una sbiadita effige della Santissima Vergine Addolorata.

La vecchia puritana sdegnata e impaurita fuggì via, correndo con la piscia che le colava tra le gambe, preoccupata d’essersi rivelata.

Vomitarono fiele e sdegno contro se stessi e contro la mala sorte quando furono al riparo delle proprie mura di casa, intanto che la vergogna li aveva aggrediti lesta e penetrante e carpiva precocemente quelle finte certezze che prima avevano spronato audacemente i loro animi.

In meno che non si dica Gaetano e Addolorata si sposarono, ovviamente in chiesa e lei con l’abito bianco e il velo strascicante. La gente che in un tempo ancora più breve era stata informata per bene e nei particolari delle scelleratezze dei due amanti,  si era parecchio insolentita della sfacciataggine di quei maestrini  delle elementari.

I ben pensanti si congiunsero in coro e incominciarono a sputar sentenze: invocavano il cielo il giusto castigo divino. Era inconcepibile che quei due si fossero permessi tante trivialità, e proprio nel luogo incontaminabile di una scuola, dove gli ingenui scolaretti facilmente potevano scoprirli. E le voci e le ingiurie circolarono per tutto il paese e andarono anche oltre, ma il tempo delle carte parrocchiali era quello che era, troppo lungo purtroppo, e non poteva essere abbreviato. Ma quando i due promessi sposi furono marito e moglie davanti all’officiante della chiesa madre, nonostante lo scandalo dell’abito virginale della sposa, le voci si placarono d’incanto con la stessa tempestività di com’erano cominciate. Erano sposi ormai, cosa se ne poteva dire ancora?

Da quel giorno, però, trascorso nei sotterra del convento, la vita e la sessualità dei due congiunti fu un continuo nascondersi, una perpetua simulazione tragica e avvilente che li schiacciava persino al chiuso della loro stanza da letto, seppure al buio e sotterrati da una montagna di coperte. Erano sempre pronti ad affrontar qualcuno nascosto chissà dove, qualche perfido delatore che di soppiatto li poteva spiare e li voleva esporre al pubblico ludibrio della gente.

Intanto quel poco che aveva goduto con Gaetano, Addolorata l’aveva perduto per sempre, ed ora era più sola che mai e rimpiangeva quella semplice compagnia e quelle carezze premurose, rassicuranti che il marito le concedeva senza pretendere nulla; si era abbandonata in una vedovanza che non s’aspettava potesse castigarla così presto. Ella sentiva il bisogno d’avere un uomo accanto, una persona che la sapesse amare discretamente, e più di un ovvio contatto umano le mancava la protezione, o soltanto la vicinanza di un compagno pronto a sostenerla nei suoi stati d’animo più caliginosi.

E dire che proprio di fronte casa sua ci stava un uomo, un coetaneo, ancora belloccio nella forma, dal portamento assai garbato, che spesso la scrutava da lontano quando lei, disinvolta, s’affacciava al davanzale del balcone parecchio trascurato che da troppo tempo aveva lasciato in abbandono. 

Era divorziato quell’uomo lì, e questo lo sapeva perché se ne parlava in giro e si diceva che era un ricco possidente di terre e di giardini d’aranci e che aveva avuto la sventura di prendersi in moglie una donna che non lo aveva mai capito. Ora, quell’uomo preferiva starsene in disparte dopo l’insuccesso del proprio matrimonio, e piuttosto che continuare a vivere con una donna che non lo interessava e che da tempo aveva smesso d’amare, aveva scelto di vivere da solo e alquanto ritirato.

Addolorata, d’un tratto, si rese conto che un anno era davvero troppo per rimanere ancora sola e, lì per lì, decise di dar fine al proprio sconforto e al lutto stretto che soverchio l’aveva intristita.

Pensò di poterlo sedurre quel “buon partito” dirimpettaio di cui ignorava tutto, persino il nome; ma da lontano sarebbe stato più facile attirare la sua attenzione: l’avrebbe incantato negli occhi, senza farsi sfiorare e si sarebbe mostrata com’era veramente, semplice e senza pregiudizi, dichiaratamente pronta per farsi conquistare. Così, una sera di mezz’estate, che l’afa e la noia si erano fatte veramente opprimenti, appena lo vide uscire sul terrazzo a fronte la sua casa si mise in mostra. Incominciò a girar per casa con una vestaglietta striminzita e seducente che lasciava intravedere quasi tutto, e per tutto ciò che poco si distingueva quella veste era fatta apposta per eccitare l’immaginazione: ben oltre di quel che a mala pena poteva proibire agli occhi.

Addolorata accese la luce di casa, tanto era distratta povera donna, come se non sapesse che l’uomo già la guardava. Lei si ammirava nello specchio dell’armadio a muro ed indagava sulle sue lunghe cosce ben tornite, sul seno languido ahimè, sui glutei un po’ appassiti, e dolcemente sfiorava la propria pelle ancora, meravigliosamente vellutata. Voleva dimostrare a se stessa che gli anni di una donna sono poca cosa se il corpo non li vuole ravvisare.

L’uomo, intontito, sgranò gli occhi alla sublime visione che gli giungeva chiara e poco fortuita da quel balcone dirimpetto. Drizzò persino le orecchie per cogliere una voce, un canto, una poesia, che gli sembrò naturale potesse diffondersi nell’aria bruna della sera, come se una celeste melodia gli dovesse annunciare in sottofondo quella fatale apparizione celestiale.

Si sistemò per bene sulla sua terrazza gremita di gerani variopinti e di gelsomini  profumati, prese con se un binocolo molto potente e s’adagiò, battagliero, sulla sedia a sdraio. Un po’ più da vicino cominciò a scrutare quella bella signora tanto per bene che della casa a fronte era l’incanto, l’opera, il rapimento e la sua perplessa suggestione.

Addolorata era una gran bella donna senza veli e senza fronzoli addosso e i quarant’anni che si portava addosso sembravano un imbroglio per lei che si mostrava così, per l’aureo splendore della sua pelle scura, per le forme intatte e per la folta criniera ricciolina e bruna che le marcava certe parti del corpo ben distinte dalla sublime geometria di talune fogge naturali. La giusta quantità di un bel pelame, né più né meno di quel che può servire alla natura per completare un’opera d’arte molto particolare. Superba perizia d’immediati chiaroscuri, di alterni significati intuitivi, di vaghe linee errabonde che si intersecano e si liberano, e poi s’incurvano per perdersi inesorabilmente dove si bramerebbe avviarsi: supremo artificio del concedere e del negare fantasie estreme al senso estetico e al gusto armonico del pensiero emotivo.

Questa è arte signori miei, altro che cromatismi contrastanti ed evolutivi di forme arcane e trascendentali, o linguaggi formali e altamente introspettivi che assorbiscono i sentimenti dei realisti figurativi. Quando l’artefice suprema è la Natura - ars magnifica naturae - ebbene c’è da togliersi il cappello e prodigarsi in una doverosa genuflessione. E se come disse qualcuno “solo l'immaginazione dell'uomo fa sì che la verità trovi un'effettiva e inalienabile esistenza, e l'immaginazione e non l'invenzione è la suprema padrona dell'arte come della vita”, ebbene è meglio metterci un punto fermo e conclusivo su ciò di cui stiamo dissertando, perché in quel “triangolo delle Bermude” – tutt’altro che maledetto in questo caso - si può perdere l’essere e la ragione, scambiare ceci per fave e lucciole per lanterne come se niente fosse.

E quell’uomo solingo e romito al sublime vedere e prevedere cominciò a smaniare e a non connettere più. Non si convinceva, poverino, che il lacciolo della seduzione l’aveva al collo ormai, e ancora di più ad ogni sua incertezza esso si stringeva e si serrava al giugulo inquieto; uomo perduto che ancora pretendeva d’affidare il bell’evento ad una straordinaria casualità. Ma, davanti a quella scena idilliaca e mistica dovette cedere: rientrò in casa, accese la luce della cucina, abbassò la tenda di fibre di cocco come un sipario da teatro e cominciò a svestirsi pure lui.

Sapeva che la donna lo fissava, aveva fatto parecchio rumore per attirare la sua attenzione ed ella era rimasta là, immobile, attenta. E nel momento che anche lui era nudo come un San Sebastiano trafitto dagli strali della seduzione, fu certo che lei non era fuggita via a nascondersi chissà dove, e lo vedeva bene, anzi, meglio di prima che lei ostentava la propria partecipazione.

Si mise di profilo e poi di faccia, si girò e si rigirò più volte, finché prese la sagoma di uno di quei bronzi di Riace che mostra le proprie armi di guerriero e i pezzi dell’artiglieria pesante.

Addolorata gemette un poco dietro la tenda a velo che nulla nascondeva della sua stanza. Emise un lungo sospiro di considerazione e tirò via con forza anche quell’inutile, ultimo baluardo che si metteva in mezzo tra lei e la sua creatura predata.

Da quella sera in poi ci furono soltanto repliche di quello spettacolo improvvisato, proprio in quei balconi all’ultimo piano di un sobborgo paesano. Una commedia, o un dramma, con qualche piccola variante dovuta alla bravura degli attori che recitavano a soggetto, muti ovviamente, come nei film del primo novecento. Era all’aperto la recitazione e gli attori rimanevano separati perchè le scene avevano due fronti, due luoghi distinti, ma assai vicini e congiunti. E loro due erano attori e spettatori nello stesso tempo, unici per loro fortuna: insieme, pubblico e protagonisti.

Le case erano disposte sopra le altre e intorno ad esse c’erano soltanto viuzze strette che chiunque, se pur nutrito d’una curiosità morbosa, era impedito di vedere, ovvero di sospettare soltanto qualcosa. E tutte le sere fu lo stesso spasso lassù, in quei balconi legati al cielo: lui sul proprio terrazzo a mostrar le cose sue e lei nuda davanti allo specchio dell’armadio a muro troppo appannato.

Durò tutta l’estate quell’operetta senza copione, e ai primi temporali della stagione successiva i due “amanti” si trovarono a fronteggiare anche l’inconveniente della temperatura. Non erano giovincelli certamente, e la sera, dopo il tramonto, faceva un po’ di freddo per star lì ignudi, sui davanzali dei balconi che si guardavano per un limite intimamente confinante. A quel punto avevano il bisogno di trovare qualche ripiego per continuare insieme quei brevi istanti di passione ardente che avevano esaurito così, dietro le tende, l’uno tirando la propria coda con le mani e l’altra torchiando una minuscola collina di piacere.

Un giorno di novembre di quell’anno, era passata da poco la festa dei defunti, Addolorata e l’uomo sconosciuto si incontrarono per caso, che lei stava uscendo da una banca e lui vi entrava frettoloso. Quasi si scontrarono sulla soglia e si guardarono negli occhi per un istante, ma senza dirsi niente. L’uomo si fermò a guadarla e poi…, manco a voltarsi indietro, che la vergogna di vedersela accanto l’aveva fatto arrossire più di una prugna. Addolorata, invece, per nulla si sconvolse e tirò innanzi per la sua strada, consapevole del proprio essere donna: eccellente tempra che può semplicemente lasciar di stucco un povero citrullo.

E quella stessa sera la rappresentazione la fecero comunque e lo spettacolo continuò lo stesso, addirittura si concessero un bis e un tris, ma solo per quella volta che avevano avuto l’incontro tanto atteso e sospirato e non si erano detti nulla. Ma, cosa potevano dirsi con le parole che i loro corpi non avevano saputo spiegarsi tante volte?  Le loro movenze, le pose, gli aspetti, avevano detto tutto di quel che concerneva la “fredda” passionalità dei sensi, anche a distanza, anche senza sfiorarsi una sola volta. Ed era veramente ammirevole la costanza di quella relazione indipendente, di quel disinteresse dei sentimenti che si soddisfaceva unicamente di una sorta di legame ideale, interamente sostenuto dall’ammirazione e da un alto senso dell’estetica comune.

Addolorata era consapevole che con quell’uomo non poteva essere la stessa cosa che aveva vissuto con il suo Gaetano. Nel rapporto col marito aveva avuto quasi tutto, la legittimazione, la vicinanza, il contatto, il materialismo dell’atto sessuale, perfino l’orgasmo ch’eppure sopraggiungeva sempre attraverso artifizi non fisici, però mancava un reale disordine della mente che può scaturire solo dal desiderio profondo di scoprirsi insieme e di sentirsi un po’ immorali. E l’immoralità appunto, quel solo stato d’animo che è capace di vivacizzare l’amore fisico, che a loro si era sottratta  dopo la prima volta.

Per di più nella relazione con Gaetano, Addolorata avvertiva ancora quell’angosciosa paura che l’aveva sorpresa nell’intimità del suo primo amplesso sfortunato. La stessa paura che poi l’aveva costretta al matrimonio. Dunque, oltre alla reale costrizione di vivere con il marito, l’animo della povera donna si era sempre trovato in conflitto con delle inquietudini interiori che non sapeva né poteva distinguere e spiegare. Ma quando la notte calava rapidamente sulle debolezze della sua anima, le ombre della mente le s’adagiavano su ciò che durante il giorno le appariva senza importanza, e le cose che la luce del sole addolciva e distraeva la notte poi, inspiegabilmente, li accresceva a dismisura e tutto le appariva enormemente complicato, ridotto ad un pulviscolo di scompigliate emozioni. E in quell’ora maligna Addolorata provava una fortissima stretta al cuore, un’oppressione fitta ed intensa che come una morsa l’appiattiva tra le due facce del proprio essere, e nell’abbondanza del letto a due piazze cercava inutilmente un appiglio: lei naufraga in un mare di solitudine che la soffocava.

Qua e là nel buio della sua stanza tastava le lenzuola, cercava il calore di un corpo per attingervi con tutte e due le mani fredde, magari soltanto per sfiorarlo lievemente, per poterne trarre quel valore ormai riposto della vicinanza. E la nostalgia a quel punto era parecchia, e lei precipitava in un vortice immenso e terrificante che era soltanto solitudine e disperazione. 

La vedovanza l’aveva inteso troppe volte come la riduzione della propria essenza di donna e, ogni notte, sentiva come se un umore estraneo le penetrasse dentro, attraverso la pelle, per diffondere gelidamente in ogni parte del suo corpo un veleno che l’avrebbe scaraventata in uno stato di sconforto che non sapeva sciogliere e che preludeva sempre alla tetraggine più assoluta. E la notte era triste per davvero, e lei non poteva farci niente perché si sentiva incapace di trovare una via di scampo a quella maledetta solitudine che l’avvinghiava e la teneva stretta, in bilico sopra un orripilante baratro d’abbandono.

La pacata presenza di Gaetano non era certamente bastata ai suoi bisogni, ma ora sentiva che la vicinanza di quel fidato compagno era stata qualcosa di veramente importante, anche se lei non aveva mai saputo amare quel brav’uomo. Forse sarebbe stato il tempo che poteva far crescere quell’amore che doveva essersi nascosto in qualche parte recondita del suo cuore. Però, come poteva crescere un sentimento che non era mai nato? Ciò che avevano vissuto insieme, moglie e marito, in effetti era stata soltanto l’avventura di poche ore, la passione passeggera, la tempesta di una sensualità che li aveva travolti in un momento, nient’altro insomma, se non le convenzioni poi, o talune regole infrante, o il castigo per l’onore perduto.

In fondo, il bisogno dell’uomo ideale che Addolorata coltivava nel proprio animo era un modello molto semplice che quantomeno si riduceva alla certezza di averne uno accanto, un uomo qualsiasi, senza alcuna pretesa. Ciò che le stava a cuore era sapere che qualcuno si potesse occupare di lei, senza indagare invano in quella superba aspirazione dell’anima che è l’amore, un sentimento che spesso e con troppa leggerezza tende a trovare un facile ripiego nell’estasi idealizzante dell’immaginario.

Eppure, la nostalgia dei suoi anni più verdi, gli anni delle romantiche tribolazioni innocenti, le erano scivolate via sulla fuggevole giovinezza che l’aveva appena sfiorata. E ancora la sorprendeva la sua perduta primavera mischiata ai ricordi più vivi che le ritornavano prepotentemente davanti agli occhi. Tutt’altra cosa di quel vuoto secolare che ora avvertiva dentro e che, paradossalmente, riusciva a colmarle quella misera esistenza di donna in stretta vedovanza.

Il marito era stato pure importante per tutto il tempo che avevano vissuto insieme, e quella convinzione spicciola e accomodante le semplificava un po’ il valore che doveva assegnare alla comune partecipazione di coppia. Ma una donna che si rispetti doveva avere necessariamente un uomo per legittimare quell’unione che la riguarda, perciò il matrimonio era stata una tappa ben precisa per Addolorata, un punto fermo della propria vita, e l’uomo, o il marito, soltanto un mezzo per raggiungere quella meta. Successivamente, il suo essere doveva avere una continuità e, dunque, dei figli, una discendenza, un’altra generazione. Dopo le rimaneva semplicemente morire e compiere la fine di un ciclo che doveva tendere immancabilmente alla perpetuità della specie umana.

Grandi cose, schemi evoluzionistici, pensieri deliranti. Ma, sin da piccola Addolorata si era aggrappata a tali concetti esistenziali molto contorti e di conseguenza ella si accorgeva che qualcosa nella sua vita si era inceppata, e il terribile intoppo stava proprio nella sua sterilità.

E quale colpa più orrenda poteva non procurarle quel fatale disorientamento al quale non aveva saputo contrapporre un bel niente, se non il cedimento ad un’esistenza grama e uggiosa e l’estrema chiusura con il mondo e con la vita stessa. Aspettare la morte a quel punto, alla sua età era davvero ingiusto, e una persona anche se sola può avere altro da sperare, oltre a crogiolarsi nella consuetudine di una stirpe già estinta prim’ancora di avere origine. E allora, cosa sognare? Cosa aveva d’attendersi ancora, se dell’intima essenza della vita non conosceva la natura e la misura, e di quel che poteva sperare non aveva la più pallida idea?

Soltanto gli esploratori possono gioire di quel che gli altri nemmeno possono immaginare.

Nella mente e negli occhi di chi vive tutta la vita in una stanza senza finestre e con le porte chiuse, c’è solo quell’unica stanza che si materializza nella sua mente, nulla più! Naturalmente, si può fantasticare e con la fantasia si potrebbe fuggire via da quella stanza chiusa, ma soltanto col pensiero e coi ricordi delle cose che si sono già viste o ascoltate, o toccate, altrimenti non si potrebbe andare in nessun posto e si rimarrebbe inerti ad osservare i muri di quella stanza confinata e inalterabile. Inevitabilmente, si finirebbe per convincersi che il tutto è unicamente in una stanza conosciuta, al di là ci potrebbe essere soltanto il nulla.

Addolorata aveva vissuto la sua vita chiusa in una stanza, dove nemmeno il sole era riuscito a penetrare per scaldarle il cuore. Cosa poteva sperare oltre quel buio intenso che almeno comprendeva, dove sapeva muoversi senza inciampare e percepire quelle cose che conosceva bene? Quel marito tanto importante non aveva saputo aprire un solo spiraglio nella vita che gli apparteneva e nemmeno in quella della moglie che le era rimasta accanto, anzi, egli aveva chiuso delle brecce aperte nel cuore della sua donna, fessure che le erano servite a niente per sbirciare in un mondo colorato e vivo, dove c’era la gente che esisteva e gioiva e penava in piena libertà. E adesso che Addolorata desiderava volare - era libera in fondo e lo poteva fare - non sapeva dove andare, non sapeva quale porta aprire, aveva paura di spalancare le finestre e affacciarsi su un mondo che sentiva ostile.

Aveva avvertito il fastidio dell’aria fresca sulla propria pelle e l’odore di mille fragranze che non distingueva, e non c’era nessuno che le potesse indicare una via, nessuno che potesse dirle cosa era giusto fare e cosa non lo era. Ed ella si era rinchiusa ancora di più dentro una gabbia di assilli e di paure, ed era come un canarino che mai ha aperto le ali per alzarsi in volo e dopo un salto osato e disperato, non sapendo dove andare, ritorna tra le sbarre della sua prigione per dondolarsi almeno sull’altalena della certezza.

L’uomo senza nome che era entrato nella vita di Addolorata, passando per un balcone sospeso nell’aria, era riuscito a regalarle strane sensazioni più simili ad un turbamento, e lei lo intuiva che tutto ciò che provava per quell’uomo non poteva essere amore, anche se non aveva mai compreso a fondo il significato di quel sentimento, di quel termine chiaro che  percepiva così comune e, nello stesso tempo, così estraneo. In fondo a lei bastava soltanto quel gioco arcano che faceva in armonia con lo sconosciuto dirimpettaio; e quando si toccava per simular le mani dell’amante che stava lontano, chiudeva gli occhi come faceva col suo Gaetano. Ed erano le mani dello straniero che le correvano addosso e che le accarezzavano la pelle e le solleticavano la nuca fra i capelli, quelle stesse mani che poi volavano veloci fin dietro le spalle e giù per la schiena. Mani che la facevano elettrizzare mentre scivolavano per cercare un rifugio, immancabilmente tra le cosce, dove diventavano maestre di lussuria. Finiva così ogni cosa, mentre lui la guardava estasiato e lei ne traeva il massimo godimento  attraverso quell’originale illusione.

In quel momento magico che Addolorata viveva inebriata e incantata non si sentiva più sola.

Durò parecchio tempo la tresca amorosa di Addolorata con lo sconosciuto, un tempo davvero inusitato per una relazione consumata in lontananza, senza che mai i due amanti potessero conoscersi più di così, senza andare oltre a ciò che gli occhi e i sensi potevano inventarsi e percepire a distanza.

Poi, una sera, la porta del balcone adorna di gerani e gelsomini profumati rimase chiusa, e inutilmente Addolorata attese l’uomo che come al solito avrebbe aperto il proprio sipario. Mai più d’allora ci furono spettacoli improvvisati in quei balconi disposti a mezz’aria sopra il mondo.

In quella casa a fronte della vedova infelice e sconsolata era tornata per sempre la padrona.

 

Salvatore Caruso