Animali in casa
Racconto
di Salvatore Caruso
 

Quante volte si era sentito dire che l'asino o il mulo in casa, assieme alle persone, non ci poteva stare? Eppure, per necessità o miseria, o per tutte e due le cose, giacché di una stalla non si poteva disporre, sarebbero stati davvero in molti che nella propria dimora ci avrebbero fatto entrare persino i porci se ne avessero avuti, e ci avrebbero anche dormito accanto, magari con il pensiero fisso e irriducibile di poterseli mangiare prima o poi. Ma, gli animali si sa, durante la notte, con il buio, i propri bisogni li fanno lo stesso e naturalmente dove gli capita, non si preoccupano di cercare una latrina o un posticino appartato. Le bestie, proprio perché tali, di certe cose non si fanno scrupolo. E allora? Allora, per gli umani sarebbe bene che avessero un po’ di prudenza in più per certe situazioni, e magari fossero più preparati a qualsiasi evenienza, specialmente se avessero deciso di convivere insieme a porci e muli nella stessa stanza di una piccola casa a piano terra.

Alfio Laudani  e Fina Liotta si erano sposati da alcuni anni ormai, ma il problema dello spazio nella loro minuscola dimora gli si era presentato ancora prima di mettere su casa insieme. Addirittura, dopo la nascita del primo figlio, lo spazio essenziale che è necessario ad ogni uomo per vivere decentemente, s’affermò come il pensiero di cui preoccuparsi primariamente, soprattutto per la difficile soluzione che si prospettava che, sicuramente, non avrebbe trovato un pronto rimedio dall’oggi al domani.

Purtroppo, dentro quella casa erano già in molti quando ci abitavano solamente marito e moglie, figuriamoci con un bambino piccolo e con il mulo piazzato di spalle, o di chiappe per meglio intenderci, proprio ai piedi del letto coniugale. L’animale non dava eccessivo fastidio, se stava sempre con la testa nella mangiatoia di legno per riempirsi lo stomaco e per raccattare qualche fava che si trovava in mezzo all’orzo e alla granaglia.

La casa, se casa si poteva chiamare un unico vano a pianterreno, era del tutto ingombra già con il letto grande degli sposi. Però, per gioco forza, dentro ci avevano infilato anche un tavolo da pranzo, un canterano con lo specchio sbiadito, due comodini traballanti, un armadio sottratto alle pareti, una cucina a legna, il gabinetto e la mangiatoia per il mulo. Eppure, tutte le cose erano disposte in modo allucinante e fantastico allo stesso tempo, proprio a conferma che ogni casolare, pur piccolo che sia, può contenere tutto ciò che vuole il suo padrone.

In verità, le esigenze di quei tempi traboccanti miseria e privazioni erano poche e semplici, tanto che ci si viveva persino in mucchio dentro un unico locale angusto: il marito, la moglie, quattro figli almeno, il mulo (chi lo possedeva), la vecchierella vedova ed inferma, e chi poteva comprarla aveva una nassa con quattro, sei galline per le uova.

Nel tempo che si racconta stavano proprio così le cose della povera gente, e la situazione della famiglia Laudani non si scostava di nulla da quella menzionata.

Chiuso l’uscio di casa per dormire la sera era tutto un programma.

Durante la notte, lunga dal tramonto allo spuntar del sole, c’erano ben dodici respiri che si confondevano e si mischiavano nell’unica stanza col tetto di tegole e canne, e con qualche buchetto qua e là per non dimenticare che siamo nati sotto il cielo liberi e spogli.

In casa Laudani per essere esatti mancava la vecchietta vedova e paralitica, i loro genitori erano ancora piuttosto giovani e forti, ma le galline erano cinque, il numero dei figliuoli concordava con il modello riferito e il mulo, come abbiamo detto, stava al suo posto. E dire che c’erano famiglie allora che stavano assai peggio, e i Laudani potevano ritenersi fortunati perché una casa, loro, ce l’avevano.

Comunque, dopo la nascita del primo marmocchio, Alfio e Fina ebbero altri tre bimbi, quasi uno dopo l’altro che sembravano gemelli, tanto poco differivano d’età.

Li aveva voluti la provvidenza, dicevano per giustificare il loro operato, e ad uno ad uno li aveva portati in casa la cicogna.

Ah, quella maledetta spennacchiata ogni volta. Quando si decideva a fare un viaggio e aveva trovato la porta di casa chiusa con la sbarra,  senza pensarci due volte aveva fatto un buco nel soffitto per passarci lei e il pargoletto che teneva sospeso con il becco. I bambini piccoli ci credevano a questa favoletta che però non mitigava né il freddo né il caldo che entrava da quell’enorme pertugio sul tetto, ma pure i genitori a furia di raccontarla s’erano convinti che la colpa l’aveva davvero la cicogna, e non solo per il tetto.

Così, le povere galline tutte le notti vedevano le stelle che brillavano sopra le loro teste esposte al cielo, e quando era nuvolo e pioveva si disponevano una sopra l’altra e si alternavano, dandosi il cambio per bagnarsi a vicenda. 

A quel punto, il troppo era troppo veramente, e prima o poi si doveva pure fare qualcosa per adeguare quella casa ai bisogni di chi doveva starci dentro, magari era opportuno trovare una sistemazione più decente per quelle povere galline che non potevano lagnarsi dal momento che non potevano parlare. Gli altri inquilini, a limite, si lamentavano parecchio, ma potevano aspettare, e stavano con la testa asciutta soprattutto, sotto le coperte ognuno aveva il proprio cantuccio sistemato.

Ma, in una notte d’inverno, dopo che erano state messe da parte le preoccupazioni procurate dalla vita quotidiana e il sonno dei giusti cercava di acquietare le inutili ribellioni alle ingiustizie di questo mondo, nella casa al pianterreno col tetto bucato dalla cicogna, la notte non avrebbe portato quella serenità tanto attesa e il dolce sonno sarebbe stato turbato da un evento assai terrificante e davvero singolare.

Poco dopo la mezzanotte sembrò che all’interno dell’umile casetta ci si fosse infilato il diavolo in persona e, forse quel dannato era passato proprio dal buco sul soffitto. Soltanto lui, il maligno, a quell’ora della notte poteva ingarbugliare il sonno e la serenità della povera gente che forse, già sognava.

Urla disumane, pianto e disperazione si udirono venir da quella casa piccolina, e dall'esterno non si capiva un bel niente di ciò che capitava dentro quelle mura. L’uomo di casa gridava come un pazzo forsennato e strepitava bestemmie inaudite. Il mulo ragliava, preciso come suo padre, e tirava calci come gli era d’obbligo fare.

Nella piccola viuzza addormentata si udivano tremendi lamenti di donna e pianti incontenibili di bambini torturati a morte. Fuori, per strada, il cielo si era coperto di nuvoli che minacciavano  pioggia a catinelle e il buio s’era fatto fitto fitto che quasi si poteva tagliare con un coltello, come il pane. La luce dei lampioni a gas non esisteva ancora e le poche lucerne ad olio si erano spente dopo l’ultima messa delle nove, quando la campana dei Tre Santi aveva dato gli ultimi rintocchi della sera.

I cani della notte, fino a quel momento, avevano dormito fin troppo pacifici e un silenzio sovrano aveva operato per sostenere il sonno di tutta la brava gente che durante il giorno aveva faticato.

Se non altro, fu proprio l’occasione di tanta quiete, e per fortuna alle prime grida i vicini di casa si svegliarono in coro e, all’istante, accorsero in aiuto a quei poveri infelici colpiti sicuramente da una tremenda sciagura.

Si capì subito che in quella casa doveva esserci qualcuno deciso a fare una strage di quei poveri innocenti che teneva in ostaggio. E chi, se non compare Alfio, il capofamiglia? Solo lui, in quella notte presaga, avrebbe potuto abbandonarsi nella tremenda follia che gli agitava l’anima e, pertanto, in un raptus della mente avrebbe ordito il massacro della sua famiglia e le sevizie della sua stessa carne.

E quella fu una convinzione unanime che correva di bocca in bocca già ai primi lamenti che si erano uditi: "compare Alfio è uscito pazzo! Vuole ammazzare a tutti!" – così dicevano i vicini tra loro, e si facevano coraggio l'uno con l'altro per cercare di risolvere la questione come meglio si poteva, senza rischiare nulla per carità, la prima cosa era quella di salvaguardasi la salute e l’incolumità della persona.

Intanto, gli uomini più coraggiosi avevano iniziato a battere con i pugni sulla porta sprangata, tenendosi pronti a ripiegare immediatamente se la questione avesse preso una piega difficile.

All'interno della casa, però, nessuno rispondeva ai richiami dei soccorritori sempre più allarmati, e i buon vicini tremavano e scalpitavano davanti alla casa buia che, così com’era, con quell’aura d’inquietudine e di carneficina che le stava addosso e che veniva fuori dalle brecce sui muri, metteva davvero molta paura.

Allora, i pugni degli uomini si rafforzarono di più sulla porta che ostinatamente resisteva all’assalto anche se veniva aggredita da calci e da spallate piuttosto decise.

Alla fine ci riuscirono a scardinare quella portaccia vecchia e consunta, che a onore del vero, anche una folata di vento, ma che dico, un respiro più forte sarebbe bastato a buttarla giù. Ma, evidentemente, la paura fa davvero “novanta”, e aveva fiaccato le forze di quegli uomini massicci che erano abituati a ben altre fatiche.

Ad entrare per prime nell’infelice dimora furono le donne naturalmente, con i lumi e le candele in mano per farsi un po’ di chiaro in mezzo a quelle tenebre che spargevano timore e che potevano celare pericolosissime insidie.

Ah, che notte tremenda quella notte d’inverno che la pioggia aveva imbruttito fino al limite dell’incubo orrendo, e che orribile visione si prospettò davanti agli occhi sbalorditi delle impavide soccorritrici.

Poco prima, la luce delle lanterne era andata ed era ritornata a proprio piacimento nella piccola via troppo buia e sommersa dalle case, e sopra ogni muro si erano stampate delle strane ombre trepidanti, come sagome scure e inquiete che a lungo avevano fluttuato proprio là,  sulle pareti bianche di calce, suscitando non poche palpitazioni.

I fantasmi della notte si erano rincorsi fin sopra i tetti più alti delle case e poi si erano nascosti dietro gli angoli dei vecchi muri di tufo, mentre l’agitazione di tutti si accresceva. E tutti li avevano visti gli spettri delle tenebre e ognuno aveva riconosciuto in quelle forme eteree la propria buonanima che voleva presagire gli eventi più infausti e cercava di farli mollare ad ogni costo. Ogni ombra in quell’ora di rovina era un’anima che ognuno aveva riconosciuto e che era venuta dall’altro mondo per ammonirli a farsi i fatti propri.

Eppure, l’evento era troppo straordinario e inconsueto per potersi sottrarre, o magari nascondersi dietro le finestre delle proprie case per stare a spiare e ad aspettare che gli altri – sempre gli altri - per primi facessero qualcosa. Invece, in quella circostanza, tutti i bravi vicini erano presenti, anche quelli che avevano avuto dei dissapori con la famiglia disgraziata. Le piccole liti che il tempo aveva mutato persino in profondi rancori, pressoché insanabili, erano svanite come per incanto. Dunque, quale occasione migliore della disgrazia altrui per dissipare le vecchie ruggini e le inutili discordie che resistevano ancora nel cuore di qualche vicino più arrabbiato?

Finalmente, quando una di quelle donne coraggiose entrò in casa e la propria lanterna schiarì l’ambiente che le stava davanti, mancò poco che svenisse: era un quadro orribile quello che le si mostrò, addirittura terrificante!

Ai piedi del letto grande c'era un giaciglio con due bimbi che poco avevano di umano e che sembravano sistemati peggio delle figure di "Guernica". Poco o nulla s’intuiva delle loro sembianze, e talmente erano imbrattati di pece che l'uno scivolava sull'altro senza potersi alzare, e insieme piangevano e si aggrappavano qua e là, dove potevano poveri figli, ora ai capelli e poi alle vesti che riuscivano ad agguantare.

Dell’unica figlia femmina di casa Laudani però non c’era traccia.

Ma, qualcosa si muoveva ai piedi del letto, e da un groviglio di torva fanghiglia che sembrava animata da un tenue sussulto, si incominciò ad intuire la presenza di un esserino che si torceva tra le coperte e il crine dei materassi che,oramai, ne era uscito fuori.

La stanza era stracolma di un fetore nauseabondo e la povera donna Fina si intuiva che si era trascinata verso la porta d’ingresso, cercando una via di scampo. Adesso stava con le spalle per terra e poggiava i piedi al resto di un vecchio canterano completamente distrutto. Tra le braccia teneva il piccolo Giovannino e lo stringeva al petto per proteggerlo da qualcosa di orribile che li aveva assaliti in quella notte sciagurata. Tutti e due, madre e figlio, erano completamente sbrindellati nelle loro vesti ed ovunque i loro corpi si trovavano segnati da immonde stille di merda.

Compare Alfio era in fondo allo stanzone, in piedi poveretto, stava lì e teneva un bastone nelle mani che ritmicamente, senza alcuna forza oramai, calava sulla schiena del mulo che scalciava.

Teneva la bocca aperta il poveruomo e la lingua gli pendeva da un lato della bocca, come un cirneco ansimante, dopo una lunga corsa appresso ad un coniglio selvatico.

- E dai! E tieni! E Prendi! - Giù legnate di malo cristiano sul groppone di quella bestiaccia immonda, e ad ogni colpo il mulo sbuffava, nitriva, ragliava e tirava calci all'orbigna, dove gli capitava.

"Compare Alfio, le mutande…!" – gridò una di quelle povere donne del soccorso, sicuramente la più attenta alle nude vergogne del poveretto stremato dalla fatica.

E le mutande erano venute giù per davvero con tutto quel movimento di braccia e di gambe, in mezzo a quell’inferno di cacca di mulo che aveva inondato ogni angolo della piccola casa terragna.

Compare Alfio alle grida della donna, troppo spropositate e insopportabili per qualsiasi orecchio, si fermò per un momento con le braccia alzate che tenevano ancora il bastone sollevato, sospeso a mezz’aria come se le membra sfinite aspettassero un ulteriore consenso per calarlo nuovamente sulla schiena del mulo, ma quel consenso, purtroppo, tardava a venire.

L’uomo, resosi conto della sua incertezza, piano piano abbassò il proprio sguardo da profeta inorridito verso le "nobili" parti basse che gli ciondolavano arrendevoli e svogliate, e il mulo che lì per lì s’aspettava l'ennesima percossa, gli sferrò un calcio, ma un calcio, che il povero don Alfio incominciò a vedere chiaramente tutto il firmamento che nostro Signore ha creato.

Ad uno ad uno, l’infelice dovette distinguere e contare ogni astro splendente che gli si muoveva intorno a velocità vertiginosa e nonostante il dolore, si notava che era estasiato da quella visione, quasi che con le mani riuscisse a palpare la luce intensa di quell’inatteso incantesimo.

Tante piccole stelle radiose gli dovevano venire incontro, come minuscoli soli accecanti, come lune e pianeti fluttuanti in un cielo immobile e terso, assieme a tante altre palle e palline luccicanti che, nel frattempo, gli fecero ricordare le sue di palle, che gli dolevano maledettamente.