Lo spazio economico

I giardini d'arance

C'è oggi il rischio di una scomparsa, o di un drastico ridimensionamento dell'agrumicoltura siciliana. La lunga vicenda della coltivazione degli agrumi, bisecolare se solo ci limitiamo alle fasi in cui ha rappresentato un'attività di primaria importanza economica, potrebbe finire qui; e con essa il valore anche territoriale e paesaggistico dei giardini, dei terrazzamenti, delle piantagioni, bellezze generate non già dalla natura ma dalla dura e diuturna attività di un insieme complesso di figure sociali (braccianti, operai e operaie dei magazzini, proprietari, mediatori, esportatori, tecnici) che di per sè rappresenta la confutazione di una rappresentazione della nostra storia basata su una presunta, bassa propensione al lavoro e al rischio imprenditoriale.

Per due secoli, la Sicilia degli agrumi si è rapportata ai grandi mercati internazionali, ai processi dell'accumulazione e della mobilità sociale. Di questa Sicilia, Lentini è stata una delle capitali. Solo una, certo, visto che nel corso dei due secoli il cuore dell'agrumicoltura siciliana si è andato spostando dal nord-ovest al sud-est, dalle prime, strette fasce costiere del Palermitano e del Messinese all'Acese, alla piana di Catania, alle vallate del Siracusano. Già a cavallo tra i due secoli Lentini si è proposta come il maggior centro di produzione e di trasformazione dell'arancio, con i suoi giardini e i suoi magazzini, con il carattere di area di cerniera tra il Siracusano, cui dal punto di vista amministrativo suo malgrado apparteneva (ed appartiene) e Catania, il cui porto rappresentava il suo vero interlocutore.

Peraltro Lentini in un altro senso va considerato quale centro nodale del nostro discorso: per il suo rappresentare in piccolo, all'interno del suo stesso territorio, la dialettica tra la Sicilia arretrata di sempre e quella entusiasticamente (e magari precariamente) attaccata al treno del mercato mondiale. Si pensi a come la malaria, metafora principe di un rapporto maligno e squilibrato tra uomo e natura, condizionasse la vita della comunità lentinese e la sua possibilità di conquistare compiutamente il territorio agricolo circostante. Si ricordi la celeberrima pagina di Verga: 'Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, da orti sempre fioriti: la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda davanti agli usci delle porte scalinate dal sole ...". Su questa linea possiamo procedere anche più avanti nel tempo. Nel 1938 un grande tecnico agrario, Eugenio Azimonti, si dichiarava sconcertato per il contrasto tra la vivacità produttiva indotta dall'agrumicoltura in centri come Lentini o Carlentini e il livello di desertificazione di una parte notevole delle campagne circostanti: stando ai suoi calcoli il 40% della superficie agraria della zona era ancora da definirsi come latifondo.

Latifondo e agrumeto, dunque; e anche nella parte dinamica poca presenza, sino al secondo dopoguerra, di piccola proprietà coltivatrice. I grandi proprietari, che nell'Ottocento si vantavano di essere dei moderni imprenditori per il loro attivismo nel settore agrumario, erano gli stessi che si impinguavano della più classica rendita assenteista nelle loro aziende a grano: il caso, abbastanza studiato, del barone Giuseppe Luigi Beneventano è al proposito significativo. Dall'altro lato, il censimento del 1921 registrava a Lentini 5.430 braccianti (giornalieri) su 15.906 abitanti, più dell'82% degli occupati in agricoltura. L'avvocato Francesco Sgalambro, che nel 1908 produsse una pregevole monografia sulle condizioni dei contadini lentinesi in occasione della celebre inchiesta parlamentare sul tema, ci spiega il perché fosse così rara la concessione dei giardini in colonia o in affitto: c'era bisogno di un capitale di esercizio del quale nemmeno i contadini di discreta agiatezza potevano disporre. Le fonti ci spiegano anche che i capitali faticosamente accumulati dagli "americani", gli emigrati di ritorno, non erano sufficienti in quel tempo per l'acquisto di terreni agrumetati o trasformabili. Si comprende dunque perché, sin dal primo dopoguerra, lo sviluppo dell'agrumicoltura piccolo-proprietaria (ad esempio nelle terre di Bonvicino) abbia richiesto l'eversione del monopolio fondiario, si sia coniugato con i movimenti collettivi, con la "battaglia contro il latifondo leontino" per usare le parole di un grande protagonista di quelle vicende, Francesco Marino - agronomo comunista e leader del movimento cooperativo. Si comprende così il radicalismo politico tipico in questa zona anche nel secondo dopoguerra.

La Sicilia agrumaria, a Lentini quanto e più che altrove, non è mai somigliata al "giardino dell'Eden", all'oasi di tranquilla feracità che si mantiene estranea al ribollire dei drammi e delle miserie dell'isola. La Sicilia agrumaria, partecipando pienamente di essi, ci consente anzi di farci un'idea più sfaccettata e realistica del passato.

Lo storico non può naturalmente ipotecare il futuro; può solo sperare che la traccia di queste complesse vicende non scompaia né dalla nostra cultura storiografica e civile, né dal nostro territorio in quanto valore paesaggistico e in quanto attività economicamente rilevante.

Salvatore Lupo (Universita' di Catania)

 
brano tratto dal progetto "Lentini Studia" promosso dalla "Fondazione Pisano"
per gentile concessione del suo Presidente Prof.Armando Rossitto
 
 
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