- C'ERA UNA VOLTA ...
    
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    - LENTINI NEL DOPOGUERRA
    
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- Chi
      si ricorda ormai di “Filippu
      ca cavetta”,
      personaggio mitico della Lentini degli anni 50? Biondo, occhi azzurri
      cerchiati da un sottile paio di occhiali di metallo rabberciati con lo
      spago e dal portamento nobile e fiero, si rivolgeva a tutti a volte in
      modo gentile, a volte con tono burbero, in un linguaggio tanto aulico da
      sembrare finto. Conduceva una vita da bohemien tra le strade principali di
      Lentini, portando con se’ tutto quello che aveva e mangiando cio’ che
      riusciva a racimolare, in una gavetta d’alluminio. 
      Tale gavetta era diventata il suo segno distintivo e faceva parte
      del personaggio al punto che le persone lo conoscevano e lo chiamavano con
      l’epiteto di “Filippu ca cavetta” anziche’ col suo vero cognome.
      Questo personaggio che a noi bambini faceva a volte un po’ di paura,
      e’ stato il simbolo di un’epoca che ha segnato di fatto il passaggio
      tra la Lentini della prima parte del ‘900 e la Lentini post-bellica e
      del boom economico, legato al commercio degli agrumi. La Lentini degli
      inizi degli anni 50 era ancora, non solo nella forma urbana, la Lentini di
      inizio secolo se non, addirittura, per qualche aspetto particolare, quella
      del secolo precedente. Il tenore di vita degli abitanti, il modo in cui
      certi valori civili, sociali e religiosi, legati alle piu’ autentiche
      espressioni della tradizione della nostra isola, erano vissuti e i
      rapporti etici e socio-economici, erano ancora legati a schemi e ritmi che
      erano una logica continuazione ed evoluzione di una cultura che, se pur
      apparentemente chiusa in se stessa, era in realta’ viva, anche perche’
      aveva, come soggetto della vita di tutti i giorni, l’uomo e
      l’ambiente. La Lentini di Filippo “ca cavetta” o, come dicevano i
      ragazzini di allora “ca cavettula”, era la Lentini attraversata dalla
      strada statale 114 che costituiva, con le case costruite agli inizi del
      900, il limite urbano della citta’, le attuali vie Manzoni, Mercadante,
      Matteotti. Per queste vie transitavano non solo tutti i mezzi per e da
      Siracusa o Catania, ma anche le greggi e le mandrie di ovini e soprattutto
      i muli, gli asini e i carretti dei contadini che all’alba andavano a
      lavorare i campi e al tramonto tornavano carichi di paglia ed erba per le
      bestie che si tenevano in casa, le galline con la loro “nassa” e il
      loro corredo di “puddizzuna”
      (pidocchi ectoparassiti dei polli molto comuni nelle gabbie di legno) e/o
      la capretta, che forniva tutti i giorni il latte fresco che, spesso,
      veniva venduto porta a porta. Il pastore mungeva l’animale davanti
      all’acquirente e in questo modo assicurava la freschezza e la
      genuinita’ del prodotto. Il tramonto, con questo continuo andirivieni di
      carretti, era il momento magico per i giochi dei ragazzini. Non appena un
      carro era a portata di mano, essi provavano a saltare su, di nascosto dal
      carrettiere, e pian piano sfilavano qualche ciuffo d’erba (iaura
      e dduci – agro dolce – steli di
      trifoglio acetoso o acetosella con un tipico fiore giallo sulla
      estremita’) che veniva masticato
      mimando in maniera buffa il carrettiere e i suoi gesti da gradasso.
      Proprio sul piu’ bello c’era sempre la spia, un ragazzo meno svelto
      nel saltare sul carretto o un altro carrettiere di passaggio che gridava:
      “arreri ‘ncoppu ri zotta” (un colpo di frusta –zotta- indietro)
      ed allora il carrettiere, sbracciandosi, cercava di colpire la parte
      posteriore del carro e i ragazzini appesi. Erano quelli gli anni in cui i
      ragazzi potevano giocare per le strade senza grandi patemi d’animo; le
      poche macchine che circolavano non costituivano alcun pericolo e
      specialmente i maschi, organizzati in bande, combattevano sfide epiche che
      duravano interi pomeriggi e a volte anche giorni con le bande dei
      quartieri vicini. La tipica competizione per il dominio di un territorio,
      che in realta’ era solo uno spiazzo o una “vanedda” piu’ ampia in
      cui giocare al pallone, generalmente di pezza, era “a
      stritta” ovvero la sassaiola
      che, spesso, coinvolgeva piu’ gente del necessario, con risultati
      facilmente immaginabili. Oppure si giocava: “a
      latri e carrabbineri” dove un
      gruppo faceva la parte dei ladri che si nascondono per sfuggire alla
      cattura e un altro la parte dei carabinieri che devono snidarli. Vinceva
      la sfida chi riusciva a superare meglio la loro parte. Le ragazzine
      giocavano normalmente con le bambole, vere e proprie figlie o figli da
      allevare, coccolare e a volte, molto raramente, punire. Tra i momenti
      piu’ importanti della vita della bambola –figlia- era anche il
      “battesimo”, con relativo rinfresco, cui partecipavano tutte le amiche
      della “madre” con i loro “piccoli”. I piu’ grandicelli si
      sfidavano “a nuciddi”
      (gioco delle noccioline – si svolgeva tra 2 o piu’ giocatori che
      mettevano in palio lo stesso numero di noccioline, queste venivano tutte
      insieme lanciate verso un muro alla cui base era una fossetta di circa 15
      cm. Di diametro e profonda circa 10 cm. Le noccioline, una volta toccato
      terra, si distribuivano a casaccio intorno alla buca e i giocatori a turno
      dovevano spingere con un sol colpo delle dita <ziccare>,
      generalmente il pollice e l’indice, le noccioline dentro la buca. Il
      giocatore che faceva arrivare le noccioline dentro la buca, ne diventava
      proprietario e aveva diritto di spingere le altre noccioline sino a quando
      non avesse mancato la buca e quindi lasciato il posto a un altro
      giocatore. Il gioco delle noccioline cominciava con la festa di S.Lucia e
      finiva di norma con l’Epifania) con tipica fossetta scavata sul
      fondo ancora in terra battuta delle strade, “a
      truccari” (a toccarsi) o a
      “trucca e pammu”
      (si tratta di una delle varianti del gioco precedente. Le biglie, spinte
      dai giocatori, dovevano toccarsi e distanziarsi tra loro non oltre un
      palmo. Una variante era “o
      iteddu” –al dito- cui la
      distanza massima per vincere era pari allo spessore di un dito) con le
      biglie di vetro e successivamente con le piu’ moderne catenelle di
      plastica. Le ragazze preferivano il gioco della “ria”, il gioco della
      campana, che poteva essere di “40, 60 o 100” (rispettivamente con 4, 7
      o 10 caselle – il gioco consisteva nel tracciare per terra un disegno
      con piu’ caselle e lanciare una pietra nella prima casella e spingerla,
      restando su una gamba, fino all’ultima casella). Gli adolescenti
      prediligevano il gioco “de
      chiappeddi” (gioco per 2 o
      piu’ giocatori, che dovevano lanciare a una certa distanza, in genere
      circa 5 metri, dove era posta la vincita <soldi, noccioline o altro>
      una pietra “chiappedda” di forma appiattita e rotondeggiante di circa
      10 cm di diametro. Vinceva chi riusciva a lanciare la sua “chiappedda”
      piu’ vicina alla posta del gioco), i “5
      petri” (si trattava di
      lanciare in aria, una alla volta, una delle 5 pietre con cui si giocava e
      contemporaneamente prendere da terra, con la stessa mano usata per il
      lancio, un’altra delle pietre per poi raccogliere nel palmo della mano
      quella lanciata. Si continua quindi lanciandone due e prendendone una o
      viceversa e cosi’ via, sino al massimo di lanciarne in aria quattro,
      raccoglierne una da terra e recuperare, quasi contemporaneamente le 4
      lanciate), quest’ultimo un vero e proprio esercizio di destrezza
      manuale, oppure “u
      travu longu” (la lunga
      trave – si tratta di saltare uno alla volta, con la stessa tecnica del
      salto della cavallina, dei giocatori posti su una linea retta. Il primo
      dei saltatori si dispone a sua volta davanti all’ultimo dei saltati e
      cosi’ via, formando una lunga linea in movimento, quasi senza fine, di
      saltatori e saltati), “a nomu
      di Ddiu” (si tratta di
      saltare alla cavallina uno alla volta uno dei giocatori, scelto “a
      tocca” <per vedere a chi tocca si lancia un numero con le dita, si
      somma e si conta il numero uscito> e nello stesso tempo declamare una
      filastrocca. Chi sbagliava il salto o le strofe della filastrocca,
      prendeva il posto del giocatore da saltare, che generalmente si indicava
      come colui che “appuzzava” <cioe’ che si piegava in avanti con le
      mani sulle ginocchia e le gambe tese>. La filastrocca era la seguente:
      “a nomu di Diu” <nel nome di Dio>, e di Maria <e della
      Madonna>, tri su li Santi <tre sono i Santi>, qua qua qua
      <quattro> , cinturina (cinque), sei piattu di lumei <sei, piatto
      di limoni>, setti fimmini schietti <sette, donne nubili>, ottu
      pani cottu <otto, pane cotto>, novi scappi novi <nove scarpe
      nuove>, reci musumeci <dieci, musumeci>, unnici n’saccu i
      pulici <11 un sacco di pulci>, rurici manzionnu <12
      mezzogiorno>, tririci a passiata <13 la passeggiata>, quattordici
      a culazzata <14 culazzata, ovvero strisciare con il sedere la schiena
      del ragazza da saltare. La culazzata poteva anche essere perdonata
      declamando la frase: “culazzata piddunata”>, calciu in culu (calcio
      nel sedere, da dare con il tallone nel momento del salto al ragazzo che
      “appuzzava”>, passa u cunigghiu e ci lassa u brigghiu < passa il
      coniglio e lascia un birillo. In questo caso si lasciava in equilibrio,
      sulla schiena del ragazzo, un oggetto>, passa u cunigghiu e si pigghia
      u brigghiu <passa il coniglio e si riprende il birillo. Bisognava
      quindi riprendere l’oggetto lasciato in precedenza>, passa u cavaddu
      e ci lassa u raddu <passa il cavallo e lascio lo sporco; si lasciava
      generalmente sulla schiena il proprio fazzoletto), passa u cavaddu e si
      pigghia u raddu <passa il cavallo e si prende lo sporco, si riprende il
      fazzoletto>, bassa muntagna <bassa montagna. In questo caso il
      giocatore da saltare non era piegato sulla vita ma quasi eretto, piegato
      solo un po’ avanti>, iauta montagna <alta montagna, con il
      giocatore da saltare diritto e con la testa leggermente piegata in
      avanti>. Finita la filastrocca, se non vi erano stati errori si
      riprendeva daccapo. Un altro gioco, molto usato dai ragazzi, era il piu’
      cruento “a
      vacca scinni e ‘ncravacca”
      (la vacca scende e risale – i ragazzi divisi in 2 squadre dovevavo a
      turno saltare sulla schiena dei ragazzi della squadra avversaria che
      formavano appunto “la vacca”, i cui componenti erano piegati sulla
      vita e posti in fila uno dietro l’altro. Quando tutti i componenti della
      squadra erano saltati in groppa, il capo squadra chiedeva ai ragazzi che
      formavano “la vacca”: “chi dici a vacca?” <cosa dice la
      vacca?>. le risposte possibili erano due: scinni e ‘ncravacca, oppure
      “e’ bona”. Nel primo caso i saltatori scendevano dalla “vacca” e
      si preparavano ad una nuova serie di salti. Nel secondo caso i saltatori
      continuavano a stare sulla schiena degli altri ragazzi sino a che non
      cedeva “la vacca” o qualcuno dei saltatori o toccava i piedi per
      terra, in questo caso i saltatori formavano “la vacca” per il
      successivo turno di salti>. Le feste religiose erano vissute dai
      ragazzi con grande solennita’ e in particolar modo l’Ascensione, San
      Pietro e San Paolo (29 giugno) e l’Assunta (15 agosto). Per 
      l’Ascensione, si svolgeva, tra i vari quartieri, la sfida a chi
      accendeva al tramonto il falo’ piu’ grande. Quindi per tutta la
      giornata, per le strade, era un continuo andirivieni di ragazzi che
      raccoglievano, dove capitava, tutto cio’ che si poteva bruciare. Le
      madri ponevano in una bacinella piena d’acqua petali di rose, foglie di
      menta, ramoscelli di maggiorana, rosmarino e altre essenze che profumavano
      l’acqua che il mattino dopo tutti i membri della famiglia usavano per
      lavarsi il viso. Il 29 giugno, festa di San Pietro e San Paolo, giornata
      in cui secondo la tradizione popolare uscivano tutti i “scussuna”
      <serpenti> era d’uso farsi predire il futuro. Generalmente, la
      comare piu’ smaliziata delle altre interpretava e spiegava ai
      “profani” le forme che dello stagno o del piombo fuso assumevano
      raffreddandosi, una volta versati dentro una bacinella piena d’acqua
      posta sulla testa dell’adepto di turno. Mentre si versava il metallo
      fuso nella bacinella si ripeteva per 3 volte: “San Petru e San Paulu si,
      San Petru e San Paulu no”. 
      A ferragosto, festa dell’Assunta, l’esodo verso il mare era
      ancora lontano dai pensieri dei lentinesi e i piu’ facoltosi o
      intraprendenti si spingevano sul vicino colle di Cirico’ che appariva
      allora come il massimo della mondanita’. Ferragosto era il giorno della
      festa dei “musticheddi”.
      La “mustica” o piu’ comunemente “mustichedda”, era una sorta di
      boccale di argilla giallina, quadrilobata. La brocchetta, riempita
      d’acqua, veniva decorata con delle foglie di basilico che servivano ad
      aromatizzare e a rendere piu’ mistico e forse ancora piu’ esotico, il
      rito di bagnare nell’acqua il pane che veniva consumato dai ragazzini
      durante la festa e di bere, inebriandosi con l’odore del basilico,
      l’acqua rimasta nel boccale. I giochi, le tradizioni e le feste appena
      descritti, si svolgevano in una Lentini in cui i quartieri e vie non erano
      conosciuti per il loro nome ufficiale, imposto dal Comune, ma per una
      serie di toponimi.
    
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    - Notizie tratte da "i luoghi
      della memoria" di Cirino Gula e Franco Valenti - Ediprint - SR
    
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