I Miti e le Leggende
 
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LA STORIA DI COLA PESCE
La leggenda di Cola Pesce è diffusa in tutta la Sicilia ed in tutto il mondo mediterraneo, e di lei corrono ben 18 varianti, sicché di questa leggenda si può parlare come della leggenda"nazionale" della Sicilia, per gli elementi culturali, storici e ambientali che vi si trovano: ed una variante della leggenda dice addirittura che Cola Pesce si trova in fondo al mare, per sostenere una delle tre colonne, ormai pericolante, su cui secondo la fantasia popolare si regge l’isola. I riflessi catanesi della leggenda di Cola Pesce, che era un sub eccezionale, capace di stare settimane e mesi sott’acqua, come un autentico pesce, sono dati non soltanto dal fatto che molte varianti della leggenda lo dicono nativo di Catania, ma anche dal fatto che a Catania, nel Settecento, c’era un bravo tuffatore, un popolano soprannominato Pipiriddumi, che si vantava di essere un diretto discendente dal celebre Cola Pesce; ma il riflesso catanese più importante nella leggenda di questo tuffatore veramente singolare è che Cola Pesce, in tutte le varianti del racconto popolare, parla sempre del fuoco dell’Etna, che ribolle sotto il mare: e in una diffusa variante della leggenda, il marinaio catanese muore proprio bruciato dal fuoco sottomarino dell’Etna, perché il re Federico, incredulo della relazione fattagli da Cola, pretese che egli portasse una prova di quanto affermato. Al che, Cola Pesce prese una ferula (il noto, leggerissimo legno che galleggia facilmente) e disse : "Maestà, questa ferula ritornerà bruciata alla superficie del mare, e questa sarà la prova che sotto il mare esiste il fuoco dell’Etna; ma io non ritornerò più, perché il fuoco sottomarino mi distruggerà". E così fu

 
IL CLIMA DELLA SICILIA
il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.

 
ARETUSA
Racconta il mito che Aretusa, figlia di Nereo e di Doride, inseparabile amica della dèa cacciatrice Diana, venne da questa dèa trasformata in una fonte di acqua dolce, che sgorga copiosa lungo la riva baciata dalle acque del porto grande di Siracusa. La metamorfosi fu attuata per sottrarre la timida ninfa alla insistente corte del dio Alfeo; costui, però, quale divinità fluviale, scorrendo sotto le acque del mare Egeo, raggiunse la fonte nella quale era stata trasformata l’amata Aretusa. Raggiunta la fonte, Alfeo sgorgò a non molta distanza da lei, al fine di consentire alle sue acque di raggiungere quelle della fonte Aretusa e quindi mescolarsi con loro. In verità, Alfeo era un piccolo fiume della Grecia che, dopo aver effettuato un breve tragitto in superficie, scompariva sotto terra. Quando i Greci trovarono la piccola sorgiva di acqua dolce fuoriuscire non lungi dalla fonte copiosa di Aretusa, trovarono lo spunto per spiegarsi, fantasiosamente, la scomparsa del fiume Alfeo in Grecia, che sarebbe riapparso in superficie (dopo il lungo viaggio sottomarino) in Sicilia.

 
SCILLA E CARIDDI
Un altro esempio del costume di personificare le forze della natura in personaggi ideali, furono le figure di Scilla e Cariddi. Scilla, dal lato calabro, e Cariddi dal lato siculo, furono rappresentati dal mito greco come due mostri che terrorizzavano i naviganti al loro passaggio. Scilla (colei che dilania), e Cariddi (colei che risucchia), rappresentavano per i greci le forze distruttrici del mare. Un tempo Scilla era conosciuta come una bellissima donna, figlia di Ecate, la quale fu poi trasformata in un orrendo mostro di forma canina, dalle sei orrende teste e dalle dodici zampe. Cariddi, figlia di Poseidone e della Madre Terra, era considerata come una donna vorace, che Giove scagliò sulla terra insieme ad un fulmine: ella era usa bere enormi quantità di acqua che poi ributtava in mare.Queste due divinità, pur essendo state localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, dove le coste sono più vicine, furono intese in senso lato a rappresentare i pericoli del mare dove questo è ristretto dalla presenza delle terre. Un altro fenomeno notato dagli antichi era quello che, fu chiamato "Fata Morgana" (costei, sorella di re Artu’ ed allieva del Mago Merlino, fu un personaggio dei romanzi cavallereschi). L’evaporizzazione provocata dal surriscaldamento dell’acqua del mare, nelle calde giornate d’estate, (particolarmente quando l’acqua dello stretto appare calma) produce foschie, facili a creare immagini di ombre vaganti. Furono proprio queste foschie che facevano "vedere" ai Greci, dalla costa calabra, schiere di uomini erranti sulla costa sicula,a far nascere il mito della Fata Morgana.

 
IL TERREMOTO DEL 1693. A questo terribile cataclisma sono legate due leggende catanesi quella di "Don Arcaloro"  e quella del vescovo Carafa. La prima di queste due leggende narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale, e con la sua vociaccia gridò a Don Arcaloro di affacciarsi subito, perché gli doveva dire una cosa di grande importanza: ne andava di mezzo la vita! Don Arcolaro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno S.Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia; ed aggiunse la terribile profezia "Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintin’ura, /a Catania s’abballa senza sonu!", e cioè "Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!". Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse; e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale: e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò. Un vecchio quadro settecentesco, riprodotto da Salvatore Lo Presti, rappresenta il barone catanese con l’orologio in mano, in attesa della funesta ora.
La seconda leggenda relativa al terremoto del 1693 è quella che riguarda il vescovo di Catania Francesco Carafa, che fu a capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua cara città il terribile terremoto. Ma nel 1692 egli morì, e l’anno dopo, venute meno le sue preghiere Catania fu distrutta. Nell’iscrizione posta sul suo sepolcro, che si trova nel Duomo di Catania, si legge infatti: "Don Francesco Carafa, già Arcivescovo di Lanciano poi Vescovo di Catania, vigilantissimo, pio, sapiente, umilissimo, padre dei poveri, pastore così amante delle sue pecorelle, che poté allontanare da Catania due sventure da parte dell’Etna, prima del terremoto del 1693. Dopo di che morì. Giace in questo luogo. Fosse vissuto ancora, così non sarebbe caduta Catania!".

 
LA LEGGENDA DELLA MESSA INTERROTTA:una strana leggenda è legata alla distruzione di Gulfi (Rg) nel 1299;e dice che i soldati francesi penetrarono nella chiesa dell’Annunziata,uccidendo tutti i fedeli che vi si erano rifugiati,e perfino il sacerdote che aveva in mano il calice per l’Elevazione,interrompendo la messa nel suo momento più solenne;e andarono a godere dei frutti del loro saccheggio,bivaccando per tutta la notte.Sennonché alla mezzanotte precisa,si sentì sonare messa nella chiesa dell’Annunziata;ed ecco apparire il prete col calice in mano,seguito da tutti i fedeli che con lui erano stati assassinati.Spinti da una forza misteriosa,tutti i soldati francesi,li seguirono in chiesa,dove la messa riprese,dal punto preciso dove era stata selvaggiamente interrotta ;e,alla fine,un turbine impetuoso scosse con violenza la chiesa,e fece aprire una voragine,dove precipitarono tutti i soldati francesi,e il pavimento si richiuse su di loro.

 
LA LEGGENDA DEL CAVALLO SENZA TESTA
La Catania del 700 ci presenta una leggenda davvero affascinante,quella del cavallo senza testa.Questa leggenda è ambientata nella bellissima Via Crociferi;in questa via i numerosi nobili che vi abitavano nel 700,e che vi tenevano i loro notturni conciliaboli o per intrighi amorosi o per cospirazioni private,e quindi non volevano essere notati,e tanto meno riconosciuti,fecero spargere la voce che di notte vagasse un cavallo senza testa,e perciò nessuno vi si avventurava una volta calate le tenebre.Soltanto un coraggioso giovane scommise con i suoi amici che ci sarebbe andato nel cuore della notte,e come prova di questo, avrebbe piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle monache Benedettine,che la tradizione vuole costruito in una sola notte nel 1704.Gli amici accettarono la scommessa;e l’ardimentoso giovane,munito di scala,del grosso chiodo e del martello,si recò a mezzanotte sotto l’arco delle monache,e vi piantò il chiodo (ancora se ne vede il buco);ma,nell’eccitazione non si accorse di avere attaccato anche un lembo del suo mantello al muro;sicché quando volle scendere dalla scala,si sentì afferrato a una mano invisibile;il giovane cedette allora di essere stato afferrato dal cavallo senza testa,e ci rimase secco.Aveva vinto la scommessa:ma la leggenda del cavallo ebbe una clamorosa conferma,e nessuno si azzardò più di passare di notte per Via Crociferi.

 
ACI E GALATEA
la ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci spiegata con il mito di Aci e Galatea. Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo. Questi, accortosi delle preferenze date da Galatea al pastorello Aci, uccide il suo rivale, nella speranza di conquistare la bella Galatea, una volta eliminato il suo concorrente! Ma, ahimè, l’amore di Galatea per il suo Aci continua sino a dopo la sua morte, lasciando Polifemo sconsolato. La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli dèi, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia. Non lontani dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro. Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi "Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni.In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonimo, Aci Platani, Aci Sanfilippo.

 
PIPPA LA CATANESE
era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa "per vezzo familiare detta Pippa". Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui "si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana", tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani "l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore", anche quando il "bambino regio" improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato "gentilezza di modi", fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, "adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei", per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.

 
BILLONIA.
Personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era "la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini" (Domenico Magrì). Andava anche su e giù per via Etnea "con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri" (Pietro Nicolosi). In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre "ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia" (Giuseppe Toscano Tedeschi). D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: "e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere"(Pietro Nicolosi). Nessuno la vide più.

 
PIETRA DEL MALCONSIGLIO
E’ legata al ricordo di un periodo drammatico della storia siciliana,quando dopo la morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516),il viceré Ugo Moncada si rifiutò di lasciare l’alta carica e, sostenuto da un gruppo di esponenti della più alta nobiltà dell’isola,scatenò una sanguinosissima guerra civile che prese le mosse da Palermo e che funestò la Sicilia,con conflitti,congiure e vendette,per tre lunghi e tormentati anni. A Catania,dove contavano molti seguaci,i nobili ribelli e i loro fautori"scelsero per le loro riunioni segrete un giardino nel piano dei Trascini,nei pressi di due antichi avanzi:un capitello dorico in pietra lavica e un grosso pezzo di architrave,pure in pietra lavica,provenienti probabilmente da uno dei grandiosi templi di cui era ricca Catania nell’antichità".La lotta divampò feroce,finche i fautori del Moncada non ebbero la peggio.Il nuovo viceré,Ettore Pignatelli,riuscì a stroncare le ribellioni,colpendo i responsabili con mano pesante:molti ribelli finirono sulla forca,altri furono cacciati in esilio,i loro beni confiscati e "le loro case atterrate".Il Senato della città a memoria,e monito di questi avvenimenti,fece rimuovere i due antichi avanzi lavici:il capitello,che da allora si chiama "Pietra del malconsiglio" venne innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre il pezzo di architrave fu sistemato all’ingresso del palazzo della Loggia e su di esso i debitori insolventi erano fustigati con apposite verghe.Dopo il terremoto del 1693 della "pietra del malconsiglio" e dell’architrave nessuno più si ricordò.La prima nel 1872 fu rimossa e posta in un cantuccio della corte del Palazzo Carcaci ai Quattro canti,e li è rimasta.Il secondo pezzo invece si trova nel cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini.

 
IL VICERE’ E LA BARONESSA
verso la fine del XVI secolo divenne viceré ,don Marcantonio Colonna.Quando giunse a Palermo era già anziano;ma si innamorò perdutamente della nobildonna Eufrosina Valdaura moglie del nobile Calcerano Corbera e baronessa del Miserendino.Il marito e il suocero se la presero a morte con il viceré e durante un ricevimento pronunciarono minacce nei suoi confronti.Fu uno sbaglio.Il viceré temendo per la sua vita,non volle correre rischi e prese i suoi provvedimenti.Anzitutto fece arrestare il suocero della baronessa per debiti non pagati,che,detenuto nel carcere della Vicaria,morì in breve tempo.Restava ancora il marito.Un bel giorno fu invitato per una gita di piacere che si fece su di una galera del viceré e fece scalo a Malta.Un bel mattino il Corbera fu trovato ucciso.Dopo un breve periodo di lutto la baronessa celebrò i suoi amori con il viceré,che fece arredare alcune stanze su porta Nuova per i loro incontri amorosi e,per manifestare il suo amore,regalò al popolo una grande fontana nei pressi di piazza Marina,adorna di sirene,putti e creature marine dove spiccava l’immagine di una sirena bellissima che dai seni stillava acqua per gli assettati.In quella sirena tutti riconobbero l’effige della baronessa Eufrosina del Miserendino.

 
LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA
nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno,e l’anziano conte di Mòdica,Bernardo Cabrera,avrebbe voluto prenderla in sposa,per aumentare il suo potere,dato che era già Gran Giustiziere del Regno.La regina Bianca,però,non voleva sentirne;e allora il conte la inseguì per tutto il regno;la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori,che catturò il focoso Giustiziere,e lo fece rinchiudere mel castello di Motta;dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana,che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio,e ottenuto il permesso dalla regine,Jana si travestì da paggio,e si fece assumere al servizio del conte,entrando nelle sue grazie,e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca.Il conte abboccò all’amo;e una notte,fattolo travestire da contadino,la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello,sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo;e al mattino fu beffato dai contadini,che lo presero per un ladro,e lo derisero. Jana,riprese le sue vesti femminili,e rivelatasi chi era,lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania,dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca.

 
LA MADONNA DEI MIRTI
nella campagna di Villafranca Sicula (AG) esiste una chiesetta dedicata alla Madonna dei Mirti,la cui origine è spiegata da un’interessante leggenda locale.Un vecchio frate stava rientrando dalla questua al suo convento di Bugio,recando sul suo asinello due quadri sacri,di cui uno raffigurava la Madonna.Quando fu nei pressi del convento,si accorse di aver perduto il quadro che raffigurava la madonna:Subito tornò nei suoi passi,e ritrovò il quadro lungo la strada,dentro un cespuglio di mirti.Tornato al convento,raccontò agli altri frati la strana avventura che gli era capitata;ma,quando volle mostrare loro il quadro della Madonna,il quadro scomparve per la seconda volta;e fu ancora una volta ritrovato dentro il cespuglio di mirti,lungo la strada per Villafranca.Si capì allora che la Madonna voleva essere onorata proprio in quel punto;e così sorse la chiesetta campagnola della Madonna dei Mirti di Villafranca Sicula.

 
IL FIUME DI LATTE
presso Catenanuova (En) ,in contrada Cuba,esiste ancora un’antica masseria,che nei tempi passati fungeva anche da albergo,e da stazione di posta,per chi si recasse a cavallo o in lettiga da Enna a Catania.Una lapide,posta sotto il balcone,ricorda che in quella stazione di posta pernottarono un re e una regina nel 1714,e un grande poeta tedesco nel 1787,Wolfgang Goethe,col suo compagno di viaggio,il pittore Crisoforo Kneip.Vale la pena di raccontare perché vi si sia fermata a pernottare una coppia regale nel 1714:ciò fu dovuto al marchingegno ideato dal cavaliere Ansaldi da Centùripe,che era il proprietario della masseria-albergo,e nutriva un grande desiderio di ossequiare personalmente il re Vittorio Amedeo II di Savoia,re di Sicilia dal 1713,che con la regina Anna d’Orlèanns si stava recando da Palermo a Messina,per tornare in Piemonte.Quando il corteo reale stava per giungere alla sua masseria,il cavaliere Ansaldi diede ad i suoi dipendenti uno stranissimo ordine;quello di versare nel torrentello vicino,tutto il latte che avevano munto quel giorno.Quando le avanguardie del re arrivarono al torrentello,si fermarono,perché non credevano ai loro occhi:davanti a loro c’era un fiume di latte! Esterrefatti ,corsero a comunicarne notizia al re,che,incredulo,volle assaggiare:e dovette riconoscere che i suoi cortigiani non avevano preso un abbaglio.Si fece avanti allora il cavaliere Ansaldi;il quale spiegò loro che egli era ricorso a questo espediente,per avere l’onore di ossequiare personalmente i reali di Sicilia;e,poiché si era già fatta sera,li pregò di pernottare,con tutto il loro seguito,nella sua masseria;e l’invito fu gradito al re,che al momento della partenza nominò l’Ansaldi,inventore del fiume di latte,Capitano onorario delle Guardie reali.

 
PADRE CELESTINO
era un monaco di casa ripostese, in pratica di quelle persone che pur essendo laiche, fanno vita religiosa.Dei giovinastri locali, sapendo che padre Celestino, pur essendo "monaco di casa" era benestante, decisero di mettere le mani sul gruzzolo, ma non con una rapina o un atto di violenza, bensì in maniera del tutto "religiosa".Pertanto, una notte, si travestirono da angeli, con le camicie da notte lunghe fino ai piedi, e con le ali di cartone appiccicate alle spalle, scoperchiarono le tegole della casetta dove abitava padre Celestino, e gli calarono un paniere attaccato a una corda, mentre cantavano: <<O padre Celestino dice il buon Gesù/prima manda il gruzzoletto /e dopo sali tu!>>.Il povero "monaco di casa", nella sua ingenuità, abboccò all’amo; raccolse subito tutti i soldi che aveva, li mise nel paniere, si inginocchiò con le mani in croce, e….rimase aspettando. Passò del tempo; e quando quei bravi giovani pensarono che era di nuovo venuto il momento di ritentare l’impresa, rifecero tutto come la prima volta; si vestirono da angeli, calarono il paniere, cantarono la canzone; ma questa volta la canzone la sapeva anche padre Celestino; il quale, quando i presunti angeli finirono di cantare, rispose a sua volta, e con la stessa intonazione: <<O angeli beati/dite al buon Gesù/che mi ha fregato una volta/e non mi frega più!>>.

 
UN SANTO STRAORDINARIO
il Santo Patrono di Noto è il piacentino Corrado Gonfalonieri, che si ritiro a vita eremitica a Noto, dove visse dal 1343, fino alla morte, avvenuta nel 1351.tra i suoi miracoli, c’è quello di avere allargato la sua grotta a forza di spallate; onde ancor oggi i Retini dicono nelle difficoltà: <<E chi sono io, san Corrado, che allargò la sua grotta a forza di spalle?>>.E le campane delle chiese, alla sua morte, il 19 febbraio 1351, suonarono da sole, per annunziare il trapasso; per cui i Retini lo considerarono santo prima ancora della canonizzazione pontificia; e pertanto incorsero nella censura della Curia romana, da cui furono liberati soltanto da papa Paolo III nel 1544, quando la Congregazione dei Riti ne autorizzò ufficialmente il culto come Beato; e papa Urbano VIII lo canonizzò nel 1615.

 
LA PANTOFOLA DELLA REGINA ELISABETTA
Maletto è il più alto comune della provincia di Catania; e su una delle sue rupi più alte, la "Rocca Calanna" andò a cadere una pantofola della regina Elisabetta, quando i diavoli nel 1603 andarono a gettare la regina dentro il cratere dell’Etna, per farla andare all’inferno.Molto tempo dopo, un pastorello vide sfavvilare al sole la pantofola; e la volle toccare, ma si bruciò le mani.Fu chiamato allora un frate esorcista, e la pantofola volò via, andandosi a posare su una torre del castello di Maniace, presso Bronte. Della pantofola si tornò a parlare; quasi due secoli dopo, quando nel 1799 il castello di Maniace fu donato dai Borbone all’ammiraglio inglese Orazio Nelson, durante una festa da ballo tenuta a Palermo; perché in quell’occasione una dama misteriosa-si dice, il fantasma della regina Elisabetta -donò in gran segreto a Nelson un prezioso cofanetto, dentro il quale era custodita la fatidica pantofola; e gli raccomandò di non farla mai vedere a nessuno e di averne cura gelosissima; ma Nelson se la fece carpire dalla sua amante, Emma Hamilton; e la stessa notte gli apparve in sogno la misteriosa dama, che gli disse: "Sciagurato! Hai perduto la tua fortuna!". Pochi giorni dopo Nelson morì nella battaglia di Trafalgar, il 21 ottobre 1805.

 
LA LEGGENDA DELLA BELLA ANGELINA
per spiegare il toponimo del comune di Francavilla di Sicilia (ME), una leggenda popolare racconta di una nobile fanciulla francavillese, Angelina, di cui si era innamorato il delfino di Francia; il quale, durante il Vespro, venne a rapirla nottetempo, per questo Angelina raccomandava alla sua fedele ancella Franca di vegliare (Franca, vigghia!), per essere pronte al momento dell’atteso segnale di partenza.La leggenda, in realtà, non è che un tentativo di spiegare etimologicamente il toponimo di Francavilla, che in siciliano suona appunto Francavigghia.

 
LA LEGGENDA DEI DUE FRATELLI
per spiegare l’origine del monte Mojo (che si trova in provincia di Messina),che ha l’aspetto di un moggio,o di un immenso cumulo di grano,una leggenda locale parla di due fratelli,di cui uno era cieco,e l’altro era un volgare profittatore;il quale,al momento della spartizione del grano trebbiato,riempiva il moggio completamente quando toccava a lui,e lo capovolgeva,riempiendolo dal fondo,quando toccava al fratello cieco;e per di più gli faceva passare sopra la mano,per fargli capire che il moggio era ben colmo;e il fratello cieco,passando la mano sul misero mucchio,diceva:<<Se non vedo io,vede per me Iddio!>>.E il Signore ci penso lui,a fare le giuste vendette;perché,quando fu terminata la fraudolenta spartizione,una spaventosa folgore bruciò il fratello ladro,e trasformò l’enorme mucchio di frumento nel monte Mojo,che ancora si vede.

 
LA LEGGENDA DE LA ZISA
a Palermo,nel quartiere Olivuzza,c’è un grandissimo palazzo che assomiglia a un castello ed è chiamato La Zisa.In questa Zisa c’è una grande entrata,è fatta d’oro ed elegantemente affrescata;nel centro sta una fontana di marmo dalla quale sgorga acqua limpida e fresca,e nella quale si riflettono i mosaici dorati delle pareti.Alla Zisa c’è un incantesimo per via di un grande tesoro nascosto di monete d’oro. A tenere l’incantesimo,a guardia del tesoro,ci stanno i Diavoli,i quali non vogliono che sia preso dai Cristiani.Questo palazzo fu infatti costruito al tempo dei pagani, e sì ci custodivano i tesori dell’imperatore. All’entrata della Zisa ci sono dipinti dei diavoli:chi va a guardarli nel giorno della festa dell’Annunziata (25 di marzo) vede che essi muovono la coda,storcono la bocca,e non si finisce mai di contarli. C’è chi dice siano tredici, chi quindici, chi di più.Sono diavoli, ed appunto per questo non si fanno mai contare.Anche le monete non si sa quante siano e nessuno è mai riuscito a prenderle.Ma un giorno forse ci riuscirà a sciogliere l’incantesimo e allora finirà tutta la miseria di Palermo.E’ per questo che, quando una cosa non si può sapere con esattezza, si dice: <<E chi su, li diavuli di La Zisa>>!

 
L’ELEFANTE DI CATANIA
a un’antica leggenda è riportata l’origine dell’elefante di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città.Questa leggenda racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo, che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania san Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra.Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736.Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647),che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania,lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici;ipotesi che ha generato il telone del teatro Bellini di Catania,perché il pittore Sciuti nel 1890,per l’inaugurazione del teatro,vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici. L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo :secondo Idrisi,l’elefante di Catania è una statua magica,costruito in epoca bizantina,proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna ;questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma,cui i catanesi sono legatissimi,tanto da minacciare una sommossa popolare,quando nel 1862 si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro.

 


 
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