Lentini: Uomini illustri
 
Conte Alaimo
 
Sul grandioso campanile di Messina, dono della Germania dopo la prima guerra mondiale in conto di riparazioni, si leggono i nomi di 2 donne messinesi: Dina e Clarenza. Ebbene nella storia dei vespri e nella vita del conte Alaimo da Lentini che difese Messina dai francesi nel 1282, sono menzionate le 2 donne che a capo di tutte le eroine di Messina militarono sotto la guida del Conte Alaimo alla difesa della citta' contro Carlo D'Angio'. Alaimo nato a Lentini nel 1240 derivo' il nome perche' la sua famiglia possedeva un feudo vicino Lentini che ancor oggi si nomina contrada Alaimo. Uomo giusto e integerrimo aborri' la tirannide. Giovane egli era guelfo contro gli stranieri ghibellini di casa sveva. Nel 1275, dopo un periodo di lontananza, torno' in Sicilia con Carlo D'angio' che lo nomino' suo consigliere e giustiziere a Benevento. Constato' che i francesi abusavano della bonta' del popolo siciliano con angherie e violenze. Contro tali abusi si batte' con tutte le sue energie e fece parte della congiura dei Vespri a Lentini insieme a Giovanni La Lumia. Ebbe una moglie, Macalda famosa per la sua alterigia. Questa arroganza nocque alla posizione del marito Alaimo presso la corte. Così gli furono confiscati i beni e venne rinchiuso in prigione assieme alla sua famiglia. Dopo più di un anno di prigionia fu imbarcato su una nave e insieme a due nipoti fu gettato in mare nel 1287.
 
 
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Alaimo di Lentini, (nato circa nel 1245 e morto il 2 giugno del 1287) nobile, fu Signore di Lentini e Messina, Gran Giustiziere, Capitano del Popolo ed uno dei principali organizzatori del Vespro siciliano. Alaimo di Lentini, di parte guelfa fu esiliato durante il regno di Manfredi di Sicilia. Dalla fine dello svevo con la sconfitta nella Battaglia di Benevento (1266) poté ritornare in Sicilia grazie a Carlo I d'Angiò. Gli angioini appena insediatisi nominarono Alaimo Gran Giustiziere del Regno e Segreto di Sicilia concedendo inoltre una serie di privilegi. Tuttavia nel 1275 cambiarono gli equilibri ed il Re Carlo tolse tutti gli incarichi ed i privilegi ad Alaimo. Caduto in disgrazia nel 1282 fu uno dei maggiori signori che fomentarono la rivolta antiangioina del Vespro insieme a Gualtiero di Caltagirone, Palmiero Abate, Enrico Ventimiglia e Giovanni da Procida. Nell'agosto del 1282 si insediò a Messina, dove venne eletto come «Capitano del popolo della Repubblica». La citta dello Stretto era allora assediata da truppe miste di guelfi-fiorentini e angioini-francesi. A Messina proprio il 6 agosto bloccò e respinse l'assedio al porto con una guarnigione di soli 100 soldati [1]. Venne nominato da Pietro III d'Aragona Gran Giustiziere a vita con diploma del 21 ottobre 1282. Nel corso delle tensioni successive fra i signori siciliani e gli aragonesi cercò di trovare una posizione di mediazione. Fu Alaimo che con la propria diplomazione convinse Gualtiero di Caltagirone asseragliatosi a Butera a deporre pacificamente le armi a fine 1282. Fu sempre lui a convincere Gualtiero asseragliatosi nuovamente a Butera nel corso di aprile 1283 ad arrendersi una seconda volta, stavolta però arrestandolo e condannandolo alla pena capitale. Probabilmente Alaimo cadde in disgrazia quando concesse la grazia a Carlo lo Zoppo, figlio di Carlo I d' Angiò, che era stato catturato nella Seconda battaglia di Castellammare (1284). Giacomo II d'Aragona, adirato dalla mancata esecuzione dell'angioini avrebbe punito Alaimo per tradimento, destituendolo dalle cariche pubbliche . Il 19 novembre 1284 fu convocato a Barcellona dove venne trattenuto sino al 2 giugno del 1287, quando con la scusa di un permesso per ritornare in Sicilia, venne giustiziato in viaggio sulla nave insieme ad alcuni familiari.
 
Il Conte Alaimo - Storia di un condottiero siciliano
A cura del prof. Filadelfo Favara
 
Tramontata la potenza degli Svevi con la sconfitta e la morte di Manfredi, nella battaglia di Benevento (1266), e il fallito tentativo di Corradino, giustiziato a Napoli ( 1268), calava, sul Meridione d'Italia e sulla Sicilia, la dominazione francese.
Il vincitore, Carlo d'Angiò, disceso in Italia su invito del Papa Clemente V, che continuava la politica anti-sveva dei suoi predecessori, organizzò il Regno, da poco conquistato, ispirandosi a criteri di pratica utilità e di cinico realismo.
Cominciò, così, per la Sicilia la “ mala signoria “, come fu definita da Dante (Paradiso, canto VIII, v. 73), che doveva essere la causa dell'insurrezione del Vespro.
Infatti, Carlo, non avendo alcuna considerazione per la civiltà la tradizione, le esigenze del popolo siciliano, non rispettò l'ordinamento politico, sociale ed economico dell'Isola e instaurò nel Regno l'antiquato sistema feudale francese. Impose al popolo soggetto una classe dirigente estranea ed avida, un esercito di vassalli, familiari, ufficiali regi, a cui si era legato con promesse all'inizio dell'impresa, col compito di esercitare un sordido fiscalismo e con la licenza di trarre i massimi vantaggi.
Trasferì, inoltre, la capitale da Palermo a Napoli, umiliando l'orgoglio dei Siciliani e, in particolar modo, della classe aristocratica.
Allorché le vessazioni e le esazioni divennero insostenibili (a causa della spedizione contro l'Impero d'Oriente, che il re preparava), scoppiò la rivolta del Vespro che vide accomunati la nobiltà, spogliata di privilegi e di terre, e il popolo, vittima di violenze e soprusi.
L'insurrezione dilagò in tutta l'Isola: ultima città ad aderirvi fu Messina, sede del Vicariato di Carlo ed unica a godere di certe franchigie.
Essa, però, “ tamquam portus et porta Siciliae “ (Saba Malaspina), doveva sostenere l'assedio degli Angioini e pagare un notevole tributo di sacrifici e di sangue.
Nella difesa della città, rifulsero le qualità del condottiero, l'amore della libertà e la salda coscienza morale di Alaimo da Lentini.
Molto viva è la presentazione che, nella sua prosa colorita, ma efficace, fa di lui Michele Amari, lo storico della guerra del Vespro, di cui ci piace riportare qui alcuni brani.
In seguito alla sconfitta subita dai Messinesi a Milazzo, sorsero nella città dei tumulti, nei quali il popolo, deposto l'inesperto capitano Baldovino Mussone, “ a una voce, persuadendolo forse i più savi, gridò capitano Alaimo da Lentini, nobile di sangue, vecchio robusto e animoso, espertissimo in guerra. Fu somma ventura di Messina e di tutta l'Isola.
Egli, preso appena il comando, ordinò con più alto argomento la difesa della città; riparò, sopravvide,  indefesso addestrò il popolo alle armi”.
Poi venne l'attacco.
Il 6 agosto 1282, Alaimo respinse il furibondo assalto dei francesi contro il Monastero del Salvatore, posizione chiave dell'assedio, perché sito all'ingresso del porto.
Le truppe angioine rinnovarono l'irruzione il giorno 8, investendo il monte della Capperina, che, sovrastando la città da sud-ovest, era stato fortificato di steccato e fosso e munito di arcieri.
I nemici stavano già guadagnando l'altezza, quando Alaimo,  conscio della gravità del pericolo, accorse trascinando il popolo alla lotta e vittoriosamente ricacciò gli invasori che avevano raggiunto il ridotto.
Essendo i cittadini decisi a resistere, venne a Messina il legato pontificio, Cardinale Gherardo da Parma, il quale fu accolto con tutti gli onori e ricevette in cattedrale le chiavi della città e il bastone del comando da parte del capitano del popolo.
Era desiderio di Messina affidarsi al presule della Chiesa, ma il legato, in conformità alla sua missione, disse di volere riconciliare e consegnare la città al re, il quale avrebbe usato clemenza verso i rivoltosi.
Narra Michele Amari che a quelle parole Alaimo : “ A Carlo  no - proruppe con voce di tuono e gli strappava il bastone del comando - no, Padre, vaneggi : i francesi mai più finché sangue e spade avremo noi ! “.
Sorse un grande clamore e i tentativi “onesti e franchi” della mediazione caddero a vuoto.
Inutilmente la rabbia nemica si scatenò contro la cittò: tutti  gli assalti furono respinti, quello del 15 agosto alla Capperina, quello del 2 settembre alle mura settentrionali, quello “generale ed estremo”del 14 settembre.
In tutti questi scontri domina la figura di Alaimo che “sfavillante in volto, corre per ogni luogo: agli steccati, agli spalti, ov’è maggior l'uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede i movimenti del nemico, regge tutta la difesa, rifornisce gli stanchi coi freschi guerrieri, supplisce le armi, esorta e combatte.
Con esso i condottieri, i cittadini di maggior nome, adopran tutti secondo la prova estrema e disperata; in tutto il popolo è una virtù - Viva Messina e libertà- e torna la lena ai petti e s'addoppia il vigore alle braccia e non è chi curi di ferite e di morte”.
Infine, re Carlo, vista l'inutilità della lotta, tentò di corrompere l'animo di Alaimo : venivano offerti il perdono alla città al valoroso difensore 10.000 once d'oro, una rendita annua di 200 once, onori e dignità, in cambio della resa.
Alaimo rispose che mai avrebbe tradito i suoi fratelli e i suoi figli e che la sua più alta aspirazione era la libertà della patria, per la quale era pronto a sacrificare anche la vita.
Il 24 settembre fu occupato dai francesi il palazzo dell'Arcivescovado, nei pressi delle mura.
Nella notte i soldati di Alaimo assalirono l'edificio e uccisero i nemici, mentre schiere di messinesi, in una sortita, recavano scompiglio nel campo angioino.
Scoraggiato dagli insuccessi e temendo l'arrivo di Pietro d'Aragona e delle sue truppe, il 26 settembre Carlo d' Angiò tolse l'assedio alla città
 
Poche e frammentarie sono le notizie ( che le fonti ci offrono ) relative all'arco dell'esistenza di Alaimo, precedente gli avvenimenti di Messina.
Non conosciamo l'anno di nascita, ma sappiamo che il termine “Lentini ", aggiunto al nome di battesimo, si riferisce al luogo d'origine e non alla famiglia, come dimostra Pisano Baudo nella Storia di Lentini, p. 151, nota 3, con il confronto dei diversi stemmi e la storia della famiglia lentinese di Alaimo.
Nobile di nascita, forse congiunto dei S. Basilio di Lentini, fu di parte guelfa e perciò esiliato da Manfredi. Ritornò in Sicilia dopo la battaglia di Benevento, divenne consigliere e familiare di Carlo d' Angiò e ottenne da lui ( con diploma del 22 agosto 1274) la carica di Giustiziere, prima nel Principato e nella terra di Benevento, poi in Sicilia. Nell'ordinamento giuridico del Regno, il giustiziere “rappresentava l'autorità regia, invigilava l'ordine pubblico, giudicava le cause penali e in appello le civili, affidate in prima istanza ai giudici delle terre o università, e curava l'esazione dell'imposta fondiaria “ .
Alaimo esercitò tale ufficio fino al 1278; nel 1279 assunse con altri la screzia di Sicilia e nel 1282 divenne Stradigota di Messina. Sinceramente amante del suo popolo e della sua terra e vivamente addolorato per le condizioni in cui versava la Sicilia, cominciò ad allontanarsi in cuor suo dagli Angioini e dalla loro politica.
Il Pisano Baudo ci parla di un viaggio di Alaimo a Napoli, intrapreso nel tentativo di fare alleviare le sofferenze degli isolani. Ricevuto dalla regina, sarebbe stato trattato con ostilità, per cui ritornò in patria amareggiato e convinto che nessuna concessione si sarebbe potuta ottenere dalla Corte. Al divampare della rivolta siciliana, Alaimo cercava di persuadere l'animo dei messinesi alla prudenza e alla attesa, ma il popolo, male interpretando il suo atteggiamento, lo depose dalla carica di stratigota. Dopo l'insuccesso di Milazzo, attribuito all'imperizia del nuovo comandante, il vecchio lentinese fu acclamato capitano del popolo di Messina, Catania e dei comuni da Tusa ad Augusta. Sotto la sua guida, com'è stato detto precedentemente, la città dello Stretto riusciva a difendere la sua libertà.
Intanto Pietro III d' Aragona, sposo di Costanza, figlia dj Manfredi, quindi legittimo pretendente dell'eredità degli Hohenstaufen, sollecitato dagli esuli siciliani e chiamato in aiuto dal popolo dell'Isola, era sbarcato in Sicilia e avanzava alla volta di Messina. Alaimo, posponendo i suoi principii personali alla volontà e all'interesse generale, gli andò incontro con il popolo (2 Ottohrc 1282) : il re lo fece cavalcare al suo fianco, gli manifestò la sua gratitudine per la difesa di Messina e gli disse che ormai doveva essere dimenticato il tempo in cui aveva parteggiato contro gli Svevi.
Alaimo affermò di non essere stato nemico di Manfredi; che a causa delle fazioni era stato esiliato da lui; era tornato poi coi Francesi, ma, per amore della patria che vedeva straziata ed avvilita, era divenuto a loro ostile. Apprezzando la sua franchezza e nobiltà di sentire e stimandolo degno di assumere funzioni di responsabilità, il re lo nominò  maestro giustiziere a vita di tutto il reame ( 21 Ottobre 1282), gli diede in feudo le terre di Palazzolo, di Buccheri e del Casale di Odogrillo e ne rinnovò la concessione a lui, alla moglie Macalda e ai figli.  Inoltre, prima di partire dalla Sicilia per Bordeaux, sede prescelta per il duello con re Carlo, Pietro d' Aragona donò al gran  giustiziere il proprio cavallo, l'elmo, lo scudo, la lancia e la spada e gli affidò la protezione della moglie Costanza e dei figli.
Alaimo mostrò di meritare pienamente la fiducia del re in  tutti gli atti del suo ufficio e, in modo particolare, quando, assieme a Giacomo, secondogenito di Pietro, domò la ribellione capeggiata dal barone Gualtiero di Caltagirone, il quale, rifugiatosi a Butera, fu persuaso dal nobile lentinese ad accettare il nuovo governo.Quando, però, il barone si ribellò per la seconda volta, catturato, fu giudicato e condannato a morte dall'alto giustiziere (1283). L'autorità e il prestigio di Alaimo si consolidavano sempre  più, sicché, dopo la partenza di Pietro d' Aragona per la Catalogna, l'invidia e la gelosia spinsero i cortigiani a tramare contro di lui. L'occasione fu presto trovata. Nella battaglia del Golfo di Napoli ( 1284), era caduto prigioniero degli aragonesi Carlo lo Zoppo, figlio di Carlo d' Angiò), e i ghibellini più accesi volevano vendicare l'uccisione di Corradino chiedendo la testa del principe catturato. Al loro disegno si oppose energicamente Alaimo, in qualità di  grande giustiziere. Sospettato di tradimento dai suoi nemici, divenne inviso al reggente Giacomo, che volle punire tutti coloro che avevano impedito la morte dell' Angioino.
Secondo Bartolomeo di Nicastro, invece, la rovina di Alaimo fu determinata dalle stranezze e dai maneggi della moglie, Macalda Scaletta, donna ambiziosa e bizzarra, il cui comportamento avrebbe provocato l'antipatia e lo sdegno della regina e della corte. Molto significativo, per altro, è il fatto che nessuna menzione del supposto tradimento si trovi nelle cronache di Raimondo Montaner e Bernardo d'Esclot, scrittori catalani contemporanei agli avvenimenti. E' quindi da escludere, alla luce delle testimonianze dei cronisti e dei documenti del tempo, che Alaimo avesse verarnente intrecciato relazioni con gli angioini ai danni di Pietro  d’Aragona e di Giacomo. Questi, volendo allontanare il giustiziere dalla Sicilia, Io convocò al consiglio che si tenne a Trapani e gli ordinò di recarsi a Barcellona col pretesto di sollecitare gli aiuti contro i francesi, già richiesti a re Pietro. Alaimo partì il 19 Novembre 1284 e successivamente il reggente ne faceva imprigionare la moglie e i figli e incamerava e divideva i suoi beni senza regolare giudizio. A Barcellona, Alaimo fu accolto amichevolmente da Pietro III, il quale si sdegnò per il modo di procedere del figlio, concedette al difensore di Messina una larga pensione e promise che sarebbe tornato con lui in Sicilia.
I nemici di Alaimo, però, nel numero dei quali erano forse gli stessi Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria, non desistettero dal macchinare.
Così, alla morte di Pietro III, Giacomo, divenuto re, temendo che il nobile lentinese fosse liberato e che " al ritorno di quel grande potesse seguire qualche novità in Sicilia “, decise la sua morte. Alaimo fu richiamato in patria assieme ai nipoti Adenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, anch'essi sospetti di tradimento. In vista delle coste della Sicilia, il 2 giugno 1287, i tre prigionieri furono chiamati sulla tolda della nave e appresero la loro condanna. “Non meravigliò Alaimo, ne tremò della morte, ne con vane  parole toccò il passato, o si querelò; se non che risentiva l'acume di crudeltà che volle comandare tal supplizio alla vista dell'isola e negargli sepoltura nella terra degli avi. Del resto, con la rassegnazione del Vangelo pregava salute al re, ai carnefici stessi ...".
La sentenza fu eseguita : i prigionieri vennero “mazzerati "  cioè rinchiusi ciascuno in sacchi di tela zavorrati e buttati in mare. Così conclude l' Amari il racconto sulla morte di Alaimo di  Lentini: “Approdò a Trapani la scellerata nave; e per tutta la Sicilia si disse con orrore della fine di Alaimo. Ricordavano la nobiltà del sangue, il grand'animo nelle cose della guerra e dello Stato, la possanza a cui salì, il pazzo orgoglio di Macalda che aiutò a perderlo; e tremavano gli amici, sussurravano i guardinghi gran cagione doverne avere per certo il re. Questi romori in intricato linguaggio riferisce il Nicastro e riporta con simpatia di dolore tutto il supplizio e i memorabili detti di Alaimo, forse il miglior cittadino, certo l'uomo più famoso che la Sicilia vantava nella rivoluzione del Vespro “.