Le Incartatrici

Di  Carmela  Vacante

( Nella  Sicilia  del  Passato- tra figure femminili e  vecchi  mestieri)

Tutte le sere, quando stavano per chiudere la bottega di generi alimentari e gli avventori si facevano più radi, i miei genitori preparavano tutto quello che sarebbe servito il giorno dopo. Specie nel periodo delle arance aprivano molto  presto  perché tra  le cinque e  le sei  del mattino scendevano da “ Sopra la fiera “ le incartatrici ( i ‘ncattaturi ) per recarsi ai magazzini ( e miazzè ) per lavorare le arance e si fermavano nella nostra bottega per comprare il mangiare per la giornata.

     

Fin da bambina sono stata molto curiosa ed interessata a tutto quello che avveniva attorno a me; guardavo, pertanto, con molta attenzione tutti questi preparativi ed osservavo i movimenti e i gesti che li accompagnavano: mio padre ritagliava i salumi e il pecorino pepato ( u precintinu ), ripuliva il bancone di marmo bianco e metteva da parte le piccole scaglie di formaggio ( ‘a munizzagghia ) che, sicuramente, la mattina dopo qualcuno avrebbe comprato, per metterla nella focaccia tipica lentinese “ u cudduruni “. Poi, aiutato da mia madre, condiva le olive nere e le olive bianche con il finocchietto selvatico, l’origano, il peperoncino ed altri ingredienti ed aromi così profumati che, ancora oggi, al solo ricordo, mi viene l’acquolina in bocca. Queste olive, così ben condite, venivano poi sistemate in grandi piatti di Caltagirone, disposte a cupola e guarnite con dei peperoncini rossi, freschi di salagione. Stanchi ma soddisfatti i miei genitori andavano a dormire; io ero già a letto da molto tempo, ma ancora sveglia. La mattina dopo, quando le incartatrici affollavano la bottega per comprare il pane di casa, le olive, la nutella, i datteri e altre cose, io dormivo ancora, ma il tramestio della gente che si accalcava facendo fretta e parlottando riusciva, talvolta, a superare la distanza e, arrivando fino alla stanzetta dove dormivo, mi svegliava.

Allora, incuriosita, facevo capolino da dietro le scaffalature: vedevo mia madre molto indaffarata e piuttosto spazientita servire le donne che le facevano premura e rispondere alle loro pressanti richieste con battute spiritose e a volte un po’ pepate.

Ricordi lontani sepolti dal tempo che evocano nella mia mente dei flash che mi riportano ad un passato, quando tutto era diverso e non solo nel modo di fare e di vivere; anche l’assetto urbanistico di Lentini era diverso. La strada dove abitavamo, esistente a tutt’oggi, costeggiava un alto muro che recintava gli agrumeti dei Navarria, interrotti soltanto dalla solitaria e per noi assumurusa (*che desta paura) via Agnone; al di là si estendevano altri agrumeti che, da tutte le direzioni,chiudevano la città con una fitta cintura verde scuro, che in primavera emanava un profumo di zagara (*dall’arabo zagara che significa fiore) così stordente, da penetrare profondamente e in modo indelebile nel cervello. E’tutto mutato.

In meno di cinquant’anni tutti questi agrumeti sono scomparsi; al loro posto sono stati costruiti palazzi, tante strade, riempiendo anche il vallone maleodorante e malarico dove i ragazzi, trasgredendo gli ordini dei genitori, andavano a giocare. E’ quasi impossibile trovare nella nostra città i punti di riferimento di una volta; per esempio sono pochi i giovani che sanno in quale punto della città si trova “ a Badduzza “e perché quel punto veniva chiamato così.

Ricordo che ci fu’ un periodo,  piuttosto breve, nel corso del quale mio padre lavorò, come pesatore d’arance, alla NUPRAL (*Nucleo Produttori Agrumicoli Lentinesi), ubicata proprio nei pressi della Badduzza. Spesso, di pomeriggio, finiti i compiti di scuola, lo raggiungevo al magazzino e mi fermavo a guardare affascinata il lavoro che gli uomini e le donne svolgevano: era un brulichio di persone indaffarate, in movimento, ed io, stimolata dalla mia curiosità, mi intrufolavo tra un  coffone (*grande e profondo recipiente, fatto di canna e verga intrecciate e imbottito con paglia di riso, rivestita di tela di sacco) e una madia ( maidda ) per osservare con quanta cura e attenzione le cernitici ( i maistri ) sceglievano manualmente le arance, scartando con destrezza quelle che avevano qualche macula, per poi separarle in base alla pezzatura ( 180, 160, 108, 90, 72, 48…dalle più piccole alle più grandi ) e alla categoria ( di 1° qualità, 2° qualità…). Le arance , prima di arrivare alle grandi madie ( maiddi ), dove gli uomini di fatica ( i cattiddari ) svuotavano i coffoni , passavano dalle vasche pulitrici per essere lavate e spazzolate, quando erano infettate dalla  nera (*infezione fungina che si deposita sulle foglie e sui frutti in certe annate particolarmente umide). Il lavoro che più mi attraeva e mi incuriosiva si svolgeva attorno alle madie, dove lavoravano le donne, le incartatrici, e non mi attraeva solo il lavoro che svolgevano ma, soprattutto, il loro modo di fare e di atteggiarsi, i loro movimenti, le battute che si scambiavano ( spesso sotto forma di canti ) tra di lori e con i mastri. Le cernitici deponevano le arance, già selezionate, in altre madie, più piccole e suddivise in settori, in base alla pezzatura Era proprio attorno alle madie che si svolgeva il lavoro più creativo: le incartatrici, velocemente e con molta destrezza, incartavano le arance con le veline colorate di rosso e d’oro, e riportanti il nome della Ditta e altri simboli e diciture che elogiavano il prodotto. Erano veramente brave le incartatrici: con notevole senso estetico incartavano le arance facendo un tuppo ( nodo ), oppure a caramella, con due tuppi. Io mi mettevo vicina e certe volte ero così insistente che finivo per convincerle a farmi incartare qualche arancia e capitava, magari, che a causa mia qualcuna si prendeva qualche occhiataccia dai mastri…Ma ero la figlia del pesatore…! Le arance così incartate, miste ad altre, le più belle, non incartate, erano riposte in particolari panieri, i catteddi (*paniere senza manico, fatto di verga e canna intrecciate e imbottito con paglia di riso, rivestita di tela di sacco), che le porgitrici passavano ai mastri. Per mantenere il ritmo giusto ogni mastro era servito da due incartatrici-porgitrici.

Erano i mastri che completavano il lavoro sistemando le arance in diagonale, una fila incartata e una no, nelle cassette di legno d’abete, ( rivestite a loro volta con veline più grandi, una per ogni lato ), su cui, con grande maestria e precisione, erano inchiodati i coperchi: il rumore, ritmato dei martelli che battevano con gran vigore sui chiodi dalla testa larga, si sentiva a distanza e rimbombava per tutto il magazzino, sottolineando il chiacchiericcio, i canti e le risate “de’ fimmini “ e trasmettendo, a volte, messaggi d’amore e di altri sentimenti…A mezzogiorno veniva fatta una pausa e, se il tempo era bello e c’era il sole, uomoni e donne andavano tutti fuori, nei cortili adiacenti, a consumare il frugale, quanto gustoso, pasto; se faceva freddo gli uomini accendevano un bel fuoco con frasche d’arancio e “ tavuliddi “ ricavate dalle cassette difettose. Quando la fiamma fumosa si calmava, le donne arrostivano ( scarfavunu ) il pane e le olive.

Il frugale pasto era sempre completato con le arance più belle, ma con qualche difetto, di natura o acquisito (* le donne, di nascosto, pungevano con un chiodo, qualche arancia bella per scartarla e mangiarsela) che le incartatrici,avevano messo da parte per portarsele a casa. Le donne che lavoravano le arance nei magazzini lentinesi in gran parte provenivano da molti paesini della provincia di Messina, così come i mastri che si spostavano con tutta la famiglia. In genere le mogli dei mastri non lavoravano nel magazzino: rimanevano a casa a curare i figli, anche perché i mastri guadagnavano bene e non c’era la necessità che lavorassero anche le loro donne. Per fare questo lavoro stagionale molte donne, vedove o signorine, venivano da sole; spesso per risparmiare sull’alloggio dormivano nel solaio dei magazzini, affrontando il freddo e altri gravi disagi, pur di mettere da parte un buon gruzzolo da portare al paese; le ragazze non sposate lo mettevano da parte per farsi il corredo. Arrivavano a Lentini a metà Novembre e si fermavano fino alla festa della Madonna delle Grazie che veniva, e viene tutt’oggi, festeggiata l’ultima domenica di Aprile. Era una festività molto importante, specie per i giampilieroti, che essi avevano voluto trasferire nella città di Lentini, che li ospitava, per sentirsi ancora meglio, come a casa propria. Spesso rimanevano fino al dieci Maggio per assistere ai festeggiamenti di Sant’Alfio, Patrono di Lentini. Poi la gran parte di loro ritornava al paese di origine. Quelli che, invece, erano riusciti a farsi una casa e a sistemarsi ritornavano al paese solo per l’estate ma, al massimo a Settembre rientravano a Lentini. Ed è grazie a questi oriundi, diventati lentinesi di adozione, che si è mantenuta a tutt’oggi la tradizione e, come ho già riferito, ogni anno si celebra la festa della Madonna delle Grazie presso la Chiesa Cristo Re, sempre nell’ultima domenica di Aprile e costituisce per tutta la cittadinanza un atteso ed importante appuntamento religioso che prelude ed anticipa i tre giorni di festeggiamenti che il nove, dieci ed undici Maggio Lentini dedica ai suoi Santi Martiri Alfio, Filadelfo e Cirino.

Le incartatrici lentinesi provenivano dai quartieri più poveri e degradati della città e appartenevano ai ceti meno abbienti della popolazione. Il lavoro di incartatrice non era considerato un lavoro qualificante, ma molte donne lo svolgevano perché consentiva loro di vivere e concedersi quei piccoli “ lussi “ che le riscattavano dalla loro precaria condizione economica e, soprattutto, sociale. Erano gli anni 50/70, tempi nei quali erano ancora poche le donne impegnate in attività lavorative e, comunque, anche se il lavoro di incartatrice era abbastanza redditizio, non era certamente un lavoro a cui le donne lentinesi aspirassero: avendone la possibilità ambivano dedicarsi a lavori più prestigiosi e qualificanti ( insegnante, impiegata) sebbene la massima aspirazione della gran parte di esse fosse ancora quella di sposarsi e farsi mantenere dal marito, facendo la “signora “ in casa.

      

Per approntare queste poche pagine ho voluto confrontare i miei ricordi con la realtà di oggi e, per una migliore e più obiettiva informazione, mi sono recata all’APAL (Associazione Produttori Agrumicoli Lentinesi), uno dei magazzini più importanti di Lentini, dove ho avuto modo di attingere altre notizie e di realizzare la documentazione fotografica in parte allegata a questo modesto lavoro. Ho potuto constatare con i miei occhi quello che già sapevo: il mestiere di incartatrice è, in buona sostanza, ormai scomparso; le donne lavorano ancora oggi nel settore, ma son poche , come sono pochi, in generale, gli operai che lavorano nei magazzini di lavorazione delle arance. Il lavoro viene svolto quasi tutto dalle macchine e, anche a causa della grande crisi agrumicola che imperversa sulla nostra zona (e non solo!), da più di dieci anni, i magazzini addetti alla lavorazione delle arance, sono stati quasi tutti chiusi: sono riusciti a sopravvivere soltanto quelli più grossi, quelli che, malgrado tutto, riescono a lavorare abbastanza bene perché sono riusciti a rimanere a “galla” grazie all’alto livello di tecnologia introdotta nella lavorazione. E’ scomparso anche l’indottolegato al modo caratteristico e tradizionale di lavorare e confezionare le arance; sono scomparse importanti e famose “segherie” che producevano le cassette di imballaggio: la plastica e il cartone hanno hanno sostituito; è scomparso il mestiere di “cufinaro”; è scomparso tutto quel movimento di persone e di merce che orbitava attorno alla stazione ferroviaria e che aveva fatto di Lentini uno scalo-merci di rinomanza internazionale. I tempi sono cambiati (per certi aspetti in meglio), la crisi agrumicola, alla quale accennavo, accentuata da scelte politiche, nazionali e regionali, inadeguate e penalizzanti, ha pesantemente segnato l’economia di una città, a vocazione agrumicola da sempre,ed ha innescato un processo di involuzione nel settore forse senza ritorno.

      

Gli operai, uomini o donne, ormai azionano le macchine e svolgono lavori di controllo di assistenza e di completamento del ciclo di lavorazione. Le donne controllano che le arance, già lavate e spazzolate meccanicamente , siano state selezionate bene dalle macchine ed intervengono manualmente solo per correggere eventuali errori e garantire una più precisa selezione. Le arance, selezionate per pezzatura, ben allineate una dietro l’altra, vengono trasportate da nastri, suddivisi in canali, sempre meccanicamente, verso i terminali dove il lavoro viene, in parte, completato manualmente dalle operaie (maistri) e dagli operai (mastri) . La gran parte delle arance però esce dai terminali già pesata e confezionata in sacchetti a rete pronti per essere avviati ai mercati di distribuzione. E’ raro che vengano incartate e anche questo lavoro, svolto ormai dalle macchine, viene fatto a richiesta e solo se le arance devono essere esportate all’estero. La velina, la splendida velina, ricca di colori e di fregi, che lasciava nelle mie mani di ragazzina curiosa tracce e aloni dorati, è ormai quasi del tutto scomparsa e con essa sono scomparse una tradizione e un mestiere.

       

Nel corso della mia visita al magazzino APAL una “incartatrice” si è gentilmente prestata, dietro mia richiesta, ad avvolgere alcune arance che un “mastro” ha poi sistemato nelle maniera tradizionale, in una cassetta: ma ciò è servito solo per consentirmi di scattare le foto e per sottolineare, con documentazione di prima mano, la scomparsa di un lavoro femminile che a Lentini ha segnato, si può dire, un’epoca. La velina, la splendida velina di una volta su cui sono state scritte anche delle pagine prestigiose (vedi “Le veline delle arance” Autr. Carmela Pace) non esistono quasi più: il bollino autoadesivo ha sostituito la tradizionale velina, e anche il bollino viene appiccicato meccanicamente, in bella mostra, sulle arance di Lentini che, malgrado tutto e senza peccare eccessivamente di campanilismo, restano sempre le più pregiate.

Lentini – Gennaio 2004   Carmela Vacante

 

                               

 
copyright, privacy e termini d'uso